Dalla luna di miele alla luna di fiele. Il colpo di fulmine tra il Pd e i ceti produttivi del Nord-Est ha scaricato la sua energia distruttiva sui risultati elettorali di questi giorni, con il partito democratico che torna alle percentuali che precedettero l’arrivo di Matteo Renzi al Nazareno e a Palazzo Chigi. Meno venti punti percentuali, con la sconfitta di Venezia che a livello simbolico vale per il Centro-destra ben più di una Regione.
Le adesioni entusiastiche di leghisti eretici come Bepi Covre, sindaco battagliero di Oderzo e per due mandati parlamentare leghista («voto Renzi a occhi chiusi») vanno archiviate nel grande libro dei sogni del 2014. Ricordiamo solo alcuni flash: Renzi appariva come l’uomo della provvidenza, il Salvini felpato era alle primissime e ancora timide uscite, Forza Italia sembrava in preda a una crisi preagonica che lasciava presagire solo un inevitabile passaggio a un coma senza ritorno. Come se non bastasse, sul Veneto aleggiava come un’ombra funesta l’ira dei magistrati veneziani per lo scandalo Mose, che si sarebbe manifestata il 4 di maggio, neppure nove giorni dopo il risultato strepitoso delle Europee, con l’arresto di 35 persone, tra le quali il doge Giancarlo Galan per 15 anni padrone della Regione.
Il Veneto per quasi un quarto di secolo è stato la Regione dei tre terzi suddivisi in parti quasi uguali tra Forza Italia, Lega e Pd. La somma tra forzisti e leghisti schiacciava qualsiasi velleità piddina. Almeno fino all’arrivo di Renzi. Ricostruisce Marco Almagisti, docente di Scienza Politiche all’ateneo di Padova: «La crisi del centro-destra del 2011 aveva spinto parte dei ceti produttivi alla ricerca di una nuova rappresentanza. Prima verso Grillo e poi verso il Pd di Renzi. Ma era un consenso instabile, legato al premier e difficile da replicare a livello locale». Le richieste degli imprenditori si succedono uguali a ogni tornata elettorale: investimenti, infrastrutture, meno tasse sul lavoro, un colpo di freno all’invasività della burocrazia. Dai e dai, più di qualcosa gli imprenditori hanno portato a casa. Dice Roberto Zuccato, presidente degli industriali regionali: «Un anno fa la disoccupazione in Veneto viaggiava intorno al 9,6%; adesso è calata di due punti e siamo attestati al 7,4 per cento. E tutto questo grazie al Jobs act, un risultato per nulla trascurabile». Sono i temi economici a influenzare il dibattito politico, e non viceversa. Pure il sociologo Ilvo Diamanti ha una lettura economica sull’avanzata trionfale di Luca Zaia alle regionali di due settimane fa: «Zaia ha vinto perché fa poca politica. I Veneti non sopportano la politica che s’insinua nella loro vita. L’arte d’arrangiarsi da noi è un valore assoluto che definisce la graduatoria sociale». Meno Stato più mercato. Con la contraddizione di una regione pachidermica che alimenta le sue partecipate e di Comuni incagliati in una massa enorme di debiti. È stato il pessimo conto economico della gestione Orsoni, con il corollario dei 75 milioni di debiti, a spianare la strada verso Ca’ Farsetti a Luigi Brugnaro, un imprenditore che finalmente ha redatto un programma economico capace di incuriosire l’interesse del cittadino-elettore. Un miracolo in una città a economia pianificata come quella veneziana, dove tutti parlavano a bassa voce di area franca a Marghera come se fosse una bestemmia. «Noi vogliamo seguire l’esempio dell’Irlanda: attrarre investimenti stranieri con una bassa tassazione» dice Renato Boraso, uno dei più stretti collaboratori di Brugnaro che potrebbe ottenere la delega ai Lavori pubblici. Pier Angelo Bellati, l’alleato zaiano di Brugnaro, insiste sullo statuto speciale per Venezia, replicando la parola d’ordine del governatore per la Regione. Uno dei test più elementari degli elettori veneti per riconoscere i candidati di cui fidarsi è la genuinità del pensiero autonomista. Luca Zaia vince anche per questo. I 21 miliardi di residuo fiscale sono un argomento economico che appassiona gli imprenditori e quel che è rimasto del popolo delle partite Iva. Un aspetto colpevolmente sottovalutato dal Pd e da Alessandra Moretti. I veneti, insomma, vogliono essere lasciati in pace. Liberi di lavorare, investire, reclutare personale. L’ultimo sondaggio della fondazione Nordest su un campione di 299 imprenditori privilegiati lo certifica in modo inappellabile. Il 65% è ottimista sui risultati della prima parte dell’anno e di quelli che ci si aspetta per la seconda. Ma solamente il 39,2% degli imprenditori si aspetta che l’inversione del ciclo economico possa essere attivata dall’azione del governo. Dice Francesco Peghin, presidente della Fondazione Nordest: «Essere ottimisti è nel nostro Dna. Ci sono condizioni di contesto che ci favoriscono. E noi faremo di tutto per sfruttarli. La politica? Ormai vota un veneto su due, il consenso è sempre più personalizzato e l’elettore estremamente volubile. E non è detto che sia solo un male. La Lega di Zaia un anno fa sembrava morta. Sappiamo com’è andata: dalla disfatta preconizzata al trionfo».
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