Il 3,7% dei liguri, per l’esattezza 79.158 cittadini, risultano assistiti dall’Inps come invalidi. Ben oltre la media nazionale, che è del 3,3% e di per sé è già altissima, essendo il doppio della Germania e della Francia. Lo stesso fenomeno, l’esplosione delle invalidità, si era abbattuto, qualche anno prima, sulla ricca Umbria. La ragione può essere diversa. Quella è terra di santi e di miracoli, ma il risultato non cambia: il 4,6% della popolazione riceve l’assegno. In Toscana, a due passi, la percentuale non arriva al 3,3%, nel Lazio è pari a quasi la metà, il 2,8%. In Trentino alto Adige, l’anno scorso, è stata concessa solo una, dicasi una, nuova pensione di invalidità. Possibile? Ed è sicuro che non esistano le Regioni virtuose, come sostengono i governatori che rifiutano, compatti, i tagli proposti dal governo? Che gli sprechi esistano solo nei ministeri?
I bilanci delle Regioni raccontano altro. Parlano di un’Italia divisa in due, di un paese dove il peso della burocrazia può essere in un posto dieci volte più pesante che in un altro, di amministrazioni che funzionano bene e costano poco ai cittadini, e di apparati elefantiaci con dipendenti pagati a peso d’oro. Una divisione, come dicono i dati sulle invalidità, non poi così netta tra il Nord e il Sud. Anche se è soprattutto dai bilanci delle Regioni del Sud che emergono i dati più clamorosi. Quelli sul costo del personale, per esempio. Colletti bianchi a peso d’oro A ogni cittadino della Lombardia i dipendenti della Regione costano appena 21 euro a testa l’anno. Quasi metà della media nazionale, che è di 44 euro per ogni italiano. Incredibile, ma vero, i siciliani sopportano un costo pari a quasi venti volte quello dei lombardi: 349 euro pro capite! Palazzo dei Normanni, del resto è generoso: per i 20 mila dipendenti della Regione, l’Assemblea stanzia la bellezza di 1,7 miliardi di euro l’anno. Una somma che non è poi tanto più bassa della spesa per il personale di tutte le Regioni italiane messe insieme, che è di quasi 2,4 miliardi di euro l’anno.
Con una media di 42.500 euro di stipendio lordo, i dipendenti della Sicilia, aumentati di cinquemila unità tra il 2003 ed il 2008, guadagnano quasi il 40% in più dei ministeriali. Ma vanno in pensione molto prima e con assegni ben più consistenti, che la Corte dei Conti ha calcolato in 2.472 euro a testa. Il fatto che sia una Regione a statuto speciale c’entra poco: l’autonomia fa sì che la Sicilia abbia la titolarità delle funzioni, ma nei fatti non la esercita. A norma di Statuto sarebbe anche proprietaria dei beni demaniali, come lo stesso Palazzo dei Normanni, ma preferisce lasciarli alla gestione dello Stato, forse perché la manutenzione costa. Nelle Regioni a statuto speciale che esercitano davvero le funzioni attribuite, come la scuola, la situazione è del resto ben diversa: in Val d’Aosta l’amministrazione regionale costa 2.207 euro a ogni valligiano, in Trentino Alto Adige 1.775. I veri numeri del federalismo La classifica elaborata partendo dai bilanci regionali riclassificati con fatica dalla Commissione tecnica sul federalismo fiscale e consegnati al Parlamento, «i veri numeri del federalismo» come li definisce il presidente Luca Antonini, vede al secondo posto in Italia tra le Regioni a statuto ordinario il Molise, dove l’amministrazione pubblica costa 187 euro ad ogni cittadino. I molisani sono pochi, appena 321 mila, e questo può in parte giustificare il dato. Una scusa che non vale per il Friuli Venezia Giulia e la Sardegna, altre due Regioni autonome, ma quasi solo sulla carta, dove il costo pro-capite dei dipendenti è pari, rispettivamente, a 161 e 148 euro a testa.
Sotto la media nazionale, in questo rapporto, ci sono solo la Lombardia, il Veneto (32 euro per abitante), la Liguria (34), l’Emilia-Romagna (36) e la Toscana (di un pelo, 43 euro contro 44). In tutte le altre il costo dell’amministrazione vola: 93 euro pro-capite per i lucani, 84 per gli umbri, 83 per i calabresi, 76 per gli abruzzesi, 71 per i campani, 64 per i marchigiani, 56 per i pugliesi, 53 per i laziali, 50 per i piemontesi.
Ci sono Regioni dove il costo del personale pesa quasi quindici volte più che in altre. Il rapporto tra gli stipendi pagati ai dipendenti e la spesa corrente complessiva, che è poi il criterio che il governo ha proposto in Parlamento per definire la virtuosità delle Regioni e stabilire così chi tra loro dovrà sobbarcarsi il maggior contributo alla manovra antideficit (4,5 miliardi l’anno), della quale i governatori non vogliono neanche sentir parlare, è pari in Lombardia allo 0,85%. In Sicilia, manco a dirlo, arriva al 10,4%: un euro su dieci se ne va per pagare i dipendenti. La media delle Regioni a statuto ordinario è l’1,99% e solo sei sono sotto: la Liguria, il Lazio, l’Emilia Romagna, la Toscana e il Veneto. Tutte le altre sfondano allegramente la soglia. Dal 5,45% del Molise, al 4,25% della Basilicata, al 3,8% della Calabria. Anche il Piemonte con un rapporto del 2,09%, è sopra la media. Campobasso come Parigi Naturalmente anche il peso del palazzo sulle tasche dei contribuenti è straordinariamente variabile nell’Italia che nega gli sprechi. Il record appartiene al Molise, ma stavolta il fatto che la Regione sia piccola c’entra solo fino a un certo punto. I 56 euro a testa (record battuto solo dal Trentino e dalla Val d’Aosta) dipendono forse anche dagli stipendi d’oro. Con 10.250 euro lordi al mese un semplice consigliere regionale del Molise guadagna più del presidente francese Nicolas Sarkozy, che non arriva a 6.800 euro, anche se è ancora lontano dai 144 mila euro annui dei presidenti della Regione e della Giunta regionale.
Pure in Sardegna non si scherza. Lì, dove le Province si moltiplicano a vista d’occhio, il costo medio per abitante degli organi istituzionali arriva a 53 euro, contro una media nazionale di appena 11 euro, sotto la quale ci sono solo Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana (9 euro a cittadino). Diciassettemila sardi, nel 2005, avevano firmato una legge di iniziativa popolare per ridurre gli stipendi dei loro onorevoli rappresentanti. Che quest’anno l’hanno bollata come «non urgente», rinviandone l’esame a data da destinarsi. Ben oltre la media nazionale ci sono la Liguria, con 18 euro a testa, l’Abruzzo (22), la Basilicata (24), la Calabria (38), la Campania (16). E non potevano mancare la Sicilia (31 euro pro-capite) ed il Friuli Venezia Giulia (25). Peccato che non ci siano dati validi per la Puglia, l’Umbria e soprattutto per il Lazio, dove i 73 membri del Consiglio Regionale hanno un appannaggio di 10 mila euro, mentre i 13 assessori ed il Presidente arrivano a 12 mila. L’albero della cuccagna Il federalismo fiscale, con i trasferimenti dello Stato a piè di lista sostituiti da tasse che sindaci e governatori dovranno manovrare per far quadrare i loro conti, promette una rivoluzione. Ma per qualcuno sarà un vero e proprio incubo. I costi della sanità non saranno più calcolati sulla spesa storica, sulla quale negli anni si sono incrostati gli sprechi e il malaffare, ma sulla base dei costi standard, facendo riferimento alla spesa sostenuta dai più bravi. Andrà bene alla Lombardia, alla Toscana, alle Marche, all’Emilia-Romagna, all’Umbria, ma molto peggio da Roma in giù. Calcolare il costo della sanità per ciascun abitante è poco indicativo, perché non tiene conto della migrazione dei malati, che magari partono dalle regioni meridionali per curarsi in Lombardia (dove la sanità finanziata in modo completamente autonomo costerebbe quasi 2.700 euro a ogni cittadino) o nel Lazio (oggi la spesa sarebbe di 3.349 a testa per ogni abitante della Regione).
La realtà di oggi è meglio fotografarla su altri numeri, quelli che parlano di quattro Regioni (Calabria, Campania, Lazio e Molise) commissariate dal governo ed altre quattro (Abruzzo, Liguria, Sicilia e Sardegna) obbligate ai piani di rientro del disavanzo, con uno sforamento complessivo che arriva a 4 miliardi di euro. Piani che fanno acqua da tutte le parti, tanto che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, l’altro giorno in conferenza stampa si è detto preoccupatissimo.
Per avere i conti a posto forse bisognerà aspettare il federalismo, che obbligherà i governatori che sforano i tetti ad aumentare le tasse ai propri elettori molto più di quanto non possano o vogliano farlo oggi. O a chiudere veramente gli ospedali che non servono. Non come succede a Posillipo, la collina più ospedalizzata del mondo, dove ci sono quattro nosocomi e due cliniche universitarie per quattromila posti letto. Che vengono ridotti, un po’ qua e un po’ là, tirando via lenzuola, materassi e cuscini, lasciando però in piedi reparti di radiografia e sale operatorie con relativi medici e specialisti. Forse bisognerà aspettare il federalismo per capire, per dirla con il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, che «la sanità non è l’albero della Cuccagna».
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