Il ministro Tremonti ha il merito di avere limitato il deterioramento dei saldi di bilancio durante la grande recessione, al contrario di altri Paesi. Lo ha fatto lottando contro pressioni di ogni tipo, raggranellando milioni di entrate e risparmiando milioni di spese qua e là. Ma usciti o quasi dall’emergenza, è ora necessario andare oltre ai saldi, e domandarsi se l’Italia voglia rimanere per sempre un’economia dove la spesa pubblica vale oltre la metà del Pil, e la pressione fiscale è costretta ad adeguarsi. Se la risposta è no, allora è arrivato il momento di chiedersi come attuare quelle riforme strutturali della spesa che finora sono mancate. Ma le risposte non si troveranno nel Documento di economia e finanza per il 2011, né nel Programma di stabilità. Con un Governo afflitto da problemi di immagine al vertice, impegnato a prevenire l’erosione di una esigua maggioranza, e a due anni dalle elezioni, per lungo tempo non si parlerà di azioni serie sulla spesa. Il migliore indicatore dell’azione governativa è il saldo di bilancio primario aggiustato per il ciclo economico, cioè il saldo di bilancio al netto degli interessi sul debito (il cui livello dipende solo minimamente dal governo attuale, e soprattutto dallo stock di debito accumulato in precedenza) e depurato dagli effetti del ciclo economico (il saldo peggiora automaticamente se l’economia è in recessione, senza colpa del Governo). Il Governo prevede un miglioramento costante di tale saldo, di circa tre punti percentuali da qui al 2014, in gran parte dovuto a riduzioni di spesa. Apparentemente, questo è un aggiustamento ragguardevole. Ma è da prendere con molta cautela, per due motivi: si basa su stime ottimistiche, ed è frutto in gran parte di misure saltuarie o non specificate, non di cambiamenti strutturali alla dinamica della spesa. Prendendo il 2012 come esempio, il Governo stima che i provvedimenti presi nel 2010 ridurranno il disavanzo di circa 25 miliardi, oltre 1,7 punti di Pil. Ma gran parte degli effetti sono imputati a due misure, la lotta all’evasione e il patto di stabilità con gli enti locali, entrambe basate su assunzioni da verificare, e che storicamente hanno sempre dato risultati deludenti. Un’altra fonte di risparmi riguarda i salari pubblici, frutto del blocco del turnover, che non può essere ripetuto all’infinito. Il Governo continua a prevedere cospicui risparmi su questa voce fino al 2014, ma non è chiaro su che base concreta. Successivamente, con la Legge di stabilità e quella di bilancio, il Governo ha rimodulato i numeri iniziali, in apparenza senza modificare i saldi, al fine di consentire una serie di nuove piccole spese. Queste sono state finanziate, nel 2011, con la più tipica delle entrate una tantum, i proventi delle aste delle frequenze digitali, e da una serie di piccole modifiche a tanti capitoli d’entrata, dagli effetti estremamente incerti, quali «maggiori verifiche, controlli e sanzioni a giochi e lotterie», la «razionalizzazione delle riduzioni delle sanzioni» e i soliti fantomatici «effetti indotti». Niente di nuovo o di peggio rispetto al passato, ma non certo materia da grande riforma della politica di bilancio. Tutto questo rende il miglioramento del saldo primario estremamente aleatorio. Ma se anche si realizzasse, poco o niente in queste misure ha la natura di una riforma strutturale che riduca finalmente il peso della spesa pubblica. E senza interventi sulla spesa, la pressione fiscale non potrà scendere, come riconosce il Governo. In teoria, le riforme strutturali sono affidate al Programma nazionale delle riforme. Ma questo documento dimostra ancora una volta che i programmi di bilancio a medio termine sono armi a doppio taglio, in Italia come in altri Paesi. Da un lato il Governo deve poter pianificare la propria azione su un periodo di più anni; dall’altro questi programmi multiannuali diventano quasi inevitabilmente una scusa per posporre ogni azione seria, rimandandola al futuro senza peraltro essere costretti a offrire misure specifiche. L’esperienza internazionale dimostra che i risanamenti di bilancio duraturi, basati in gran parte su riduzioni di spesa, sono fatti prendendo il toro per le corna, partendo con il botto: riducendo le spese drasticamente nei primi due anni, e poi consolidando gradualmente i risultati raggiunti, magari aggiungendo una riduzione delle tasse per mostrare che i sacrifici richiesti servono a qualcosa. Con i piccoli decimali di punto percentuale si evitano gli slittamenti in periodi d’emergenza, come ha fatto Tremonti in questi due anni, ma non si cambia lo status quo. Ma questo Tremonti lo sa, così come sa – e non si stanca di ripeterlo – che è facile per un accademico parlare di riforme strutturali, mentre la realtà politica è ben più complicata. Su questo ha perfettamente ragione, ed è per questo che per i prossimi anni non è il caso di farsi illusioni.
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