Ogni tanto il Mezzogiorno torna all’attenzione accidentalmente. È accaduto nei giorni scorsi con Pomigliano e poi con il j’accuse del ministro Tremonti contro le regioni meridionali, incapaci di spendere i fondi europei. Che cosa mostrano queste vicende? Il ritardo della cultura di una parte dei sindacati – legata a un’epoca da tempo finita nell’affrontare i problemi di tutela dei lavoratori, facendosi carico attivamente delle questioni di produttività e innovazione dentro l’impresa; ma anche la mancanza di un progetto politico organico per il Sud che leghi – invece di contrapporre- governo e regioni in un’azione efficace di riqualificazione del territorio. Pomigliano rischia di darci- accidentalmente – l’ennesima visione distorta dei problemi del Mezzogiorno, se ci limitassimo a confinare i nodi della produttività e competitività delle imprese che operano nel Sud dentro lo spazio della fabbrica. Come sanno bene quegli imprenditori che cercano di innovare, c’è un’altra faccia della produttività nel Mezzogiorno, quella che dipende da carenza di beni collettivi – infrastrutture, logistica, servizi, formazione, criminalità- e che incide notevolmente sulla com-petitività, sugli investimenti, sull’attrazione di imprese esterne. Su questo terreno c’è un ritardo di tutto il sindacato e più in generale di tutto il mondo dei ceti produttivi – nel proporre in modo attivo soluzioni. Forse, dopo Pomigliano, bisognerebbe però anche rivedere le tradizionali contrapposizioni tra mondo del lavoro e delle imprese, per promuovere insieme interventi nuovi, efficaci e soprattutto rapidi che incidano sul contesto ambientale, sulle economie esterne. La globalizzazione e gli stessi caratteri della crisi in corso dovrebbero incoraggiare un riallineamento rispetto alle contrapposizioni tradizionali non solo dentro la fabbrica, ma nel territorio che sempre più la condiziona. Il futuro dei ceti produttivi, operanti in attività esposte alla concorrenza internazionale, e la possibilità di tutele adeguate dei lavoratori, sono sempre più legati- specie con l’impossibilità di svalutare – a un rapido recupero di efficienza su infrastrutture e servizi; a un incremento dell’offerta di beni collettivi in tutto il paese, ma soprattutto nel Mezzogiorno. D’altra parte, con un debito pubblico ingente, è impossibile abbassare una pressione fiscale troppo alta sui ceti produttivi, sostenere i redditi da lavoro e rilanciare i consumi, se non si riducono i consistenti trasferimenti di risorse verso le regioni meridionali. Ma questo vuol dire promuovere lo sviluppo autonomo migliorando la dotazione di beni collettivi. La crescita, invocata insieme dal mondo delle imprese e del lavoro, passa dunque per il Mezzogiorno. È su questo terreno che entrambi dovrebbero far sentire la propria voce nei riguardi della politica; la politica che è stata giustamente severa verso una parte dei sindacati, e poi verso le regioni meridionali con le critiche del ministro Tremonti ma che glissa sulle proprie responsabilità e i propri ritardi. Chiedere per esempio che fine ha fatto il Piano per il Sud, annunciato come decisivo e innovativo proprio un anno fa; che cosa si intende fare governo e regioni insieme non solo per spendere, ma soprattutto per spendere bene, i consistenti fondi europei; che cosa si prevede di fare per i fondi nazionali originariamente collegati a quelli europei (Fas), per ora venuti alla ribalta solo per la destinazione di quote significative per scopi diversi dallo sviluppo delle aree meridionali. Naturalmente, è nota l’obiezione. Si teme che il rimedio possa essere peggiore del male; che possa impegnare risorse in una situazione di forte tensione sulla finanza pubblica alimentando inefficienze, clientele, se non criminalità. Ma per non rischiare non si può stare fermi. Il governo deve assumersi le sue responsabilità, come è avvenuto del resto in paesi con rilevanti problemi di sviluppo regionale come la Germania o la Spagna. Le regioni meridionali necessitano di un salto di qualità nella dotazione di beni collettivi materiali e immateriali, e da sole non ce la fanno, non solo per ragioni finanziarie, ma anche per la permeabilità maggiore della politica alla pressione di interessi particolari. Né si può immaginare che il federalismo fiscale sia il toccasana, per quanto possa certo aiutare a ridurre sperperi e inefficienze legati a logiche clientelari. Occorre quindi sperimentare delle formule organizzative innovative che implichino un controllo più efficace del centro e un coordinamento migliore e un controllo reciproco e trasparente tra governo e regioni per le politiche di sviluppo come per quelle ordinarie; che impegnino risorse necessarie, ma ne vincolino maggiormente l’uso, fissando anzitutto pochi obiettivi condivisi con le regioni; che privilegino l’offerta di pochi beni collettivi strategici, materiali e immateriali – come le infrastrutture, la logistica, la formazione, la lotta alla criminalità – e escludano politiche di incentivazione individuale, chiaramente rivelatesi costose e inefficienti; che fissino tempi e responsabilità per la realizzazione rapida di beni collettivi, e sanzioni a carico degli amministratori inadempienti e delle forze politiche coinvolte (non delle imprese dei cittadini, con maggiori tasse). Tutto ciò non è impossibile, ma è difficile che possa realizzarsi senza una forte pressione congiunta del mondo dell’impresa e del lavoro, consapevoli che la crescita del paese, da cui dipende il loro futuro, si gioca più a Sud di quanto oggi spesso si creda e passa dal territorio e non solo dalla fabbrica. La politica non può chiamarsi fuori con uno scaricabarile tra centro e periferia che non porta lontano.
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