Giulio Tremonti era stato chiaro, nel citatissimo discorso tenuto lunedì alla Confartigianato: «La riforma tributaria potrà essere avviata anche e soprattutto grazie al taglio dei costi della politica». La palla al balzo è stata colta da Enrico Letta. Ieri l’Avvenire così titolava una sua intervista: «E diciamo basta vitalizi per i parlamentari». La dichiarazione di Letta era, in verità, ben più prudente rispetto a quella, pur virgolettata, del titolo: il Pd presenterà, prima delle ferie, una proposta che cancelli «gli strumenti in eccesso, a partire dalla necessità di superare il vitalizio per i parlamentari». Letta ha compreso quale sia l’aspetto, fra i costi della politica, che da decenni maggiormente irrita gli elettori. Il fatto che un parlamentare acquisisca il diritto, dopo pochi anni di contributi versati, di percepire una pensione mascherata da assegno vitalizio (per evitare problemi di cumuli), è irritante, impopolare, detestato. Calcoli fatti alcuni anni addietro rivelarono che un normale cittadino avrebbe ricevuto, in cambio di versamenti pari a quelli sborsati da un deputato o un senatore, una pensione pari a un decimo dell’assegno spettante al parlamentare. Il quale, fra l’altro, nel caso versi una quota aggiuntiva acquisisce il diritto alla reversibilità. Pur se mancano ricerche specifiche, si può tranquillamente affermare che un solo altro istituto politico gode di cattiva fama e impopolarità forse pari a quella del vitalizio parlamentare: l’esistenza di ministri senza portafoglio. Naturalmente sia Tremonti sia Letta sanno perfettamente che, quand’anche si sopprimessero gli assegni vitalizi a venire, il risparmio per l’erario sarebbe insignificante. Esso, però, avrebbe un forte significato civile, perché indicherebbe che la classe politica eliminerebbe quello che i cittadini tutti considerano un ingiusto privilegio. Un taglio apportato ai propri introiti toglierebbe un motivo di polemica quando si approvassero tagli agli introiti degli elettori. Il privilegio, in verità, si è da decenni espanso oltre Montecitorio e palazzo Madama, posto che ne fruiscono i consiglieri regionali. In qualche regione, anzi, l’assegno è reversibile anche a favore del coniuge convivente more uxorio. Ebbene, bisogna riconoscere che l’unico consiglio regionale che abbia avuto il coraggio (stante l’ovvio autolesionismo della decisione) di sopprimere l’assegno vitalizio per i propri membri, a partire dalla presente legislatura, è stato quello dell’Emilia-Romagna. La rubrica dell’art. 5 della legge regionale emiliana n. 13 del 2010 è limpida: «Abrogazione dell’istituto dell’assegno vitalizio regionale». Vedremo se il Pd e naturalmente pure gli altri partiti avranno altrettanto coraggio.
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