Questa settimana tornerà nel vivo la discussione alla Camera sulla riforma della Pa, che dopo le audizioni dei giorni scorsi vede scadere mercoledì i termini per gli emendamenti. I temi da affrontare sulle aziende partecipate sono numerosi, ed è utile approfondirli prima che il testo trovi un assetto definitivo.
Un tema oggi importante è quello della dibattuta fallibilità delle società partecipate.
Inutile qui approfondire il merito della questione in termini strettamente giuridici o commentando le innumerevoli sentenze. Il punto è che occorre porre fine alla confusione giurisprudenziale in materia. Si vada in una direzione o nell’altra, ma la cosa peggiore è appunto uno stato di incertezza che costringe i fornitori, i dipendenti e le banche a non conoscere il destino dell’interlocutore fino a quanto questo non venga deciso da un tribunale.
Si scelga, quindi. Dal nostro punto di vista la soluzione dovrebbe però prevedere la fallibilità. Il fallimento, infatti, assicura una forma di “igiene di mercato” alla quale non si vede perché rinunciare. Occorre però introdurre anche un chiaro divieto per l’ente territoriale, che in caso di fallimento della partecipata dovrà rinunciare ad affidare il medesimo servizio in via diretta (se ti fallisce la società che eroga un servizio bandisci una gara, non ne fai un’altra per ripetere il giochetto) e a istituire nuove società o ad assumere partecipazioni per un arco di tempo adeguatamente lungo (per esempio cinque anni).
Occorre ricordare, ancora, che il fallimento non necessariamente libera il Comune dagli obblighi di far fronte agli impegni societari. Infatti, la normativa civilistica prevede che, in caso di direzione e coordinamento (articoli 2497 e seguenti del Codice civile), ovvero di una circostanza che indiscutibilmente sussiste nel caso di società in house, il socio che ha approfittato della sua posizione di dominio per trarne ingiusti vantaggi debba rispondere del danno sofferto da altri eventuali soci, anche solo in termini di mancato aumento della redditività e comunque per l’eventuale diminuzione di valore della partecipazione. Soprattutto potrà essere chiamato a far fronte alle pretese dei terzi, nel caso in cui tale abuso abbia determinato l’incapienza del patrimonio aziendale a garantire le ragioni dei terzi creditori.
Questo compito, in caso di fallimento, spetta al curatore fallimentare. Per evitare facili elusioni, dovrà essere esplicitato e ribadito che, in caso di fallimento di una società partecipata, il curatore abbia l’obbligo di verificare se vi è stato abuso del potere di direzione e coordinamento, come previsto dall’articolo 2497 del Codice civile, e che il Tribunale debba controllare se questi abbia effettivamente adempiuto agli obblighi indicati dal comma 4.
Troppo spesso, infatti, gli enti sono i veri responsabili del fallimento ed è giusto che, ove ne ricorrano gli estremi, siano chiamati a far fronte ai loro impegni nei confronti dei creditori.
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