Il Consiglio di Stato, sezione V, con la sentenza n. 4041 del 31 agosto 2015 chiarisce nel dettaglio il meccanismo previsto dai commi 20 e 21 dell’articolo 34 della legge 221/2012, evidenziando come per gli affidamenti già in essere al momento dell’entrata in vigore delle norme le amministrazioni locali erano tenute ad effettuare un’accurata analisi della coerenza del modulo a suo tempo scelto con l’attuale quadro dei principi comunitari.
Nel richiedere la verifica di conformità degli affidamenti esistenti ai requisiti previsti dalla normativa europea il comma 21 dell’articolo 34 non intende fare riferimento alle norme dell’epoca in cui gli stessi affidamenti sorsero, ma alla disciplina attuale.
La norma quindi non si fonda su un giudizio d’illegittimità in senso tecnico dei relativi atti di affidamento, ma su una valutazione di coerenza dell’assetto da essi instaurato rispetto alle regole del presente.
Nella sentenza viene rilevato inoltre che la normativa del comma 21 prescinde dalle soglie di rilevanza comunitaria, per fare invece perno sulla valorizzazione dei principi concorrenziali invalsi nella relativa disciplina, secondo una prospettiva legislativa che intende rimettere in discussione assetti concessori preesistenti il più delle volte da tempo cristallizzati per porre nuovamente sul mercato i relativi servizi, e promuovere così dinamiche di sviluppo dell’economia. Pertanto eventuali valori limitati degli affidamenti non comportavano l’esclusione dall’ambito applicativo della norma.
La disposizione, tuttavia, non ha determinato una cessazione immediata delle gestioni esistenti, ma ha obbligato le amministrazioni a svolgere una verifica puntuale, nella consapevolezza che le criticità dei singoli affidamenti concreti rispetto alla normativa europea potessero atteggiarsi di volta in volta in modo diverso, ed essere talora sanabili (ad esempio, in caso di un irregolare affidamento in house mediante un adeguato mutamento organizzativo).
Qualora l’amministrazione abbia invece rilevato un conflitto insanabile con i principi comunitari (ad esempio un affidamento diretto senza gara a un operatore economico privato) l’intervento si traduce in un accertamento vincolato, stante l’impraticabilità di un adeguamento dell’affidamento, con conseguente immediata cessazione della gestione esistente.
Questo percorso doveva essere completato entro il 31 dicembre 2014 (in considerazione del differimento del termine originario operato dall’articolo 13 del Dl 150/2013) e non poteva subire deroga, nemmeno a fronte di investimenti recenti effettuati dall’affidatario.
Il Consiglio di Stato, infatti, ha evidenziato come nell’ambito di un affidamento di servizio pubblico l’elemento del riequilibrio economico-finanziario degli investimenti dell’affidatario (valorizzato dalle previsioni degli articoli 30 e 143 del Dlgs 163/2006) sia connesso al momento costitutivo della concessione.
Qualora, invece, si verifichi il mancato raggiungimento del punto di equilibrio in prossimità della cessazione naturale del rapporto, questo non determina un prolungamento dello stesso, ma costituisce presupposto per la quantificazione del giusto indennizzo.
Pertanto il recupero degli investimenti non ammortizzati in conseguenza della cessazione dell’affidamento va ricondotto a una regolazione del tutto autonoma dell’aspetto patrimoniale (con l’eventuale assunzione dell’onere da parte dell’affidatario subentrante), ma non può influire sulla durata dell’affidamento, a rischio di andare a ridurre il “rischio operativo” che invece l’affidatario deve sopportare (anche in forza di quanto espressamente previsto in tal senso dalla direttiva 23/2014/Ue).
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento