Statali, quattro ostacoli sul rinnovo dei contratti

Per riavviare le trattative bisogna decidere comparti, risorse, meritocrazia ed effetto 80 euro

Il Sole 24 Ore
12 Ottobre 2015
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La riforma Brunetta, che dal 2010 avrebbe dovuto rivoluzionare la Pubblica amministrazione, è inciampata sul nascere nel blocco dei rinnovi contrattuali, introdotto proprio quell’anno dalla manovra estiva targata Tremonti per raffreddare la febbre della finanza pubblica. «Valutazione», «meritocrazia» e «semplificazione» sono state messe da parte in tutta fretta dopo aver campeggiato nel dibattito pubblico per mesi, ma ora è il caso di rinfrescarsi la memoria. Per una ragione semplice: la riforma è in vigore e il rinnovo dei contratti che la manovra deve far ripartire come impone la Corte costituzionale ne dovrà tenere conto. Con più di un problema, che comincerà a essere affrontato già domani pomeriggio nella prima riunione all’Aran.
Il punto di partenza, com’è ovvio dopo sei anni di buste paga congelate, sono i soldi. Tutto lascia supporre che non siano molti, anche perché il Governo non ha alcuna intenzione di recuperare anche solo in parte i mancati aumenti determinati dal blocco. Nella sentenza 178/2015 la stessa Corte costituzionale ha “salvato” il vecchio congelamento contrattuale (che escludeva recuperi sul passato), bocciando solo l’idea che potesse ripetersi all’infinito sul presupposto di una finanza pubblica che continua a essere fragile. Con un’inflazione vicina allo zero, quindi, la dote non sarà enorme, al punto che le stime sono scese fino a quota 3-400 milioni: spalmati in modo omogeneo su tutti, darebbero poco più di 10 euro lordi a testa al mese.

Il merito 
Ma una distribuzione lineare delle risorse non è possibile. Proprio qui interviene infatti la riforma Brunetta, che impone di destinare la «quota prevalente» del trattamento accessorio alle performance individuali di ogni dipendente, e di dividere l’organico di ogni ufficio in tre fasce di merito: alla prima, composta dal 25% del personale, deve andare il 50% dei “premi”, l’altro 50% deve andare alla seconda, in cui va collocato il 50% dei dipendenti, mentre l’ultimo quarto del personale deve rinunciare a queste somme. Ma chi dà i voti per assegnare ogni dipendente pubblico a ciascuna delle tre fasce, e sulla base di quali parametri? Il meccanismo è tutto da costruire, e trovare la quadra con la contrattazione integrativa non sarà semplice, soprattutto se si parte da un rinnovo ultra-leggero sul piano degli importi.

I comparti 
Ma c’è un altro problema, ancora più urgente perché va affrontato prima di avviare qualsiasi trattativa. Il tema, al centro della riunione di domani, si nasconde sotto l’etichetta tecnica di «riduzione dei comparti», ma può produrre parecchie grane molto concrete. Anche in questo caso, tutto nasce dalla riforma Brunetta, che nel tentativo di snellire le pratiche contrattuali e di sfoltire il panorama delle sigle sindacali ha deciso di riunire in quattro grandi comparti i 12 in cui è oggi diviso il pubblico impiego. Anche questo lavoro è stato bloccato sul nascere dallo stop ai rinnovi contrattuali. Il 1° ottobre, il ministro della Pa, Marianna Madia, ha scritto all’Aran ricordando che «per rendere possibile la formale riapertura della contrattazione» è necessario «dare tempestiva attuazione» alla nuova geografia dei comparti, anche «valutando la percorribilità di soluzioni innovative» per «giungere presto a un’intesa» con i sindacati.

L’effetto sugli stipendi 
Di “innovazione” sembra esserci bisogno, perché il nodo è di quelli intricati. Le ipotesi formulate a suo tempo, e rimaste pura accademia, prospetterebbero un “compartone” in cui riunire tutte le amministrazioni statali, dai ministeri alle agenzie fiscali fino a Inps, Aci e agli altri enti pubblici; un altro che abbraccia per omogeneità di compiti Regioni e sanità; un terzo nel quale rimarrebbero gli enti locali e un ultimo dedicato a scuola e università. Passare dalla carta geografica a quella dei contratti, però, è complicato: nel compartone statale, per esempio, confluirebbero realtà che oggi hanno differenze enormi nella retribuzione media, spiegabili con le diverse condizioni di lavoro che hanno costruito nei decenni storie contrattuali a sé: le tabelle della Ragioneria generale dicono che si va dai 34.821 euro lordi all’anno delle voci stipendiali medie di alcuni enti pubblici ai 22.977 dei ministeri, passando per i 30.948 di Palazzo Chigi e i 24.043 delle agenzie fiscali, e le differenze crescono se si conta anche l’accessorio. Come si fa a scrivere regole comuni partendo da numeri così diversi? Con poche risorse sul piatto, la “soluzione” potrebbe prevedere di lasciare tutto più o meno com’è ora, utilizzando i prossimi rinnovi per avvicinare progressivamente le condizioni dei diversi settori. In questo modo, però, i comparti oggi più “ricchi” rischierebbero di trovarsi condannati a buste paga ferme per molti anni.

Sindacati «in lotta» 
Un po’ di flessibilità potrebbe essere garantita dalla divisione dei nuovi comparti in “settori”, per «salvaguardare le peculiarità di istituti non riconducibili a una regolamentazione contrattuale comune» come spiega la stessa Madia nella lettera all’Aran. Questi settori, però, non tornerebbero utili a chi volesse risolvere gattopardescamente l’altro problema, quello dei sindacati che nei nuovi comparti non raggiungerebbero il numero minimo di tessere e di voti per essere considerati rappresentativi e potersi dunque sedere al tavolo. A Palazzo Chigi, dove lavorano 2.300 persone, l’ultimo contratto è stato firmato da sette sigle, per i ministeri le trattative sono state condotte da sei organizzazioni, stesso numero nei ministeri, mentre la situazione è ancora più intricata negli enti locali e soprattutto negli enti pubblici non economici. Per essere «rappresentativo», un sindacato deve raggiungere il tasso del 5% nella media fra iscritti e voti nelle Rsu, ed è ovvio che se la base di calcolo si allarga sale anche il numero di adesioni necessarie a superare la soglia: i confederali non avrebbero problemi, ma per i sindacati che si occupano di singole categorie il salto sarebbe spesso impossibile, e la sola ipotesi di partire davvero con la riforma sta scaldando il clima con annunci di battaglie e ricorsi.

L’incrocio con gli 80 euro 
Solo dopo aver superato queste curve la macchina della contrattazione potrà affrontare davvero la questione degli effetti in busta paga del rinnovo, che dovrà fare i conti anche con il bonus 80 euro. Tra 24mila e 26mila euro di reddito lordo, fascia in cui si colloca una fetta importante dei dipendenti pubblici, il bonus scende all’aumentare dell’imponibile, con un meccanismo che per gli interessati rischia di tagliare in modo consistente le ricadute reali del rinnovo. 
In pratica, il decalage del bonus taglierebbe il netto reale offerto in più dai nuovi contratti di una quota che oscilla dal 48 al 56% a seconda della cifra, e nei giorni scorsi la Confsal-Unsa, uno dei sindacati del pubblico impiego, ha chiesto che si trovi il modo di “sterilizzare” gli effetti di questo incrocio. Ipotesi non semplice, che oltre a trasformare la busta paga in un mastermind finirebbe per fare bonus diversi a chi ha redditi uguali, ma l’alternativa è quella che già il sindacato comincia a chiamare «beffa», scaldando ulteriormente il clima che circonda il rinnovo dei contratti.

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