Prima di accettare l’avventura di mettere ordine nella spesa pubblica italiana, il neo commissario alla spending review Carlo Cottarelli ha costruito una carriera da 25 anni al Fondo monetario internazionale, negli Stati Uniti in cui la settimana scorsa il blocco del bilancio federale ha lasciato a casa, da un giorno all’altro, 800mila dipendenti pubblici. Mettendo mano alle carte, non ci metterà molto a misurare la distanza che ci separa da Washington, e non gli sfuggirà qualche piccolo paradosso. Noterà, per esempio, che alla Casa Bianca, dove con alterne fortune prova a governare il mondo, lavorano 454 persone, mentre a Palazzo Chigi, che con analoga fatica tenta di governare l’Italia, i dipendenti sono quasi 2.438. Siamo un Paese federale, in teoria, ma con i suoi 29 dipartimenti la presidenza del Consiglio giganteggia anche sui concorrenti più centralisti, a partire dall’Eliseo, che a Parigi occupa meno di mille persone.
I paragoni sono provocatori, ma spiegano bene la ragione per cui la spending review, con vari nomi, è da anni al centro del nostro dibattito pubblico. Con un risultato: la cassetta degli attrezzi è già piena di strumenti, ma il manuale per usarli davvero deve ancora essere scritto.
Molti degli attrezzi sono stati lasciati da Piero Giarda, grande nome della scienza delle finanze italiana che da ministro del Governo Monti (e fra gli anni 80 e i 90 come presidente della commissione tecnica per la spesa pubblica) si cimentò nella stessa impresa che attende il nuovo commissario. E altri sono stati predisposti da Enrico Bondi, predecessore diretto di Cottarelli, che puntò l’attenzione sulle spese di funzionamento delle pubbliche amministrazioni e solo in questa voce arrivò a calcolare più di 10 miliardi all’anno di troppo sparsi fra enti locali, regioni e università. Insomma, non siamo all’anno zero. Anche perché né Giarda né Bondi si sono limitati alla teoria, molto del loro lavoro si è trasformato in articoli e commi (e in tagli), ma spesso la strada dell’attuazione si è trasformata un percorso di guerra. Le distanze di metodo fra i due custodi della spesa pubblica del Governo Monti non hanno aiutato, il clima di emergenza che ha accompagnato l’Esecutivo tecnico ha alimentato qualche scelta affrettata, e la capacità di resistenza delle tante burocrazie che dal cuore di Roma arrivano all’ultimo ufficio decentrato ha fatto il resto, aiutata da un’agenda della politica che cambia a ogni foglio ha alzato il polverone. Per evitare il clima “pionieristico” che in qualche caso ha accompagnato l’azione di Bondi, il premier Letta e il ministro dell’Economia Saccomanni hanno in programma di dotare il neo-commissario di una struttura e di uno staff più stabili, quindi anche meglio riconoscibili dai tanti attori con cui dovranno incrociare le spade. Questa, però, deve essere solo la prima delle decisioni in cui si mostra che la politica ha deciso di cambiare davvero passo. Perché senza una spinta reale delle istituzioni, non c’è commissario che tenga. I «costi standard», che secondo i progetti federalisti mai rinnegati ufficialmente avrebbero dovuto pescare gli sprechi in una spesa in corsa come quella sanitaria, si sono arenati in una gazzarra fra le Regioni per decidere quali Governatori avrebbero potuto fregiarsi del ruolo di «modelli» per gli altri. Politica e matematica hanno litigato anche ai tavoli dei «fabbisogni standard», che con identico meccanismo avrebbero dovuto individuare gli eccessi di generosità nelle uscite di Comuni e Province. Dopo i primi due capitoli, dedicati ad amministrazione generale e Polizia locale, si attendeva la radiografia di una funzione essenziale come l’istruzione, ma se ne sono perse le tracce. I Comuni fino a 30mila abitanti avrebbero dovuto cedere le loro partecipazioni societarie entro il 30 settembre, ma il termine se n’è andato in silenzio e la stessa sorte sembra toccare al 31 dicembre, data di scadenza delle privatizzazioni delle società strumentali. A Cottarelli, allora, toccherà il compito di portare un po’ di America anche nel calendario, spiegando che altrove le scadenze si pagano: i milioni di persone che nei giorni scorsi hanno bussato senza successo alla porta di uno dei tanti musei, parchi o uffici pubblici Usa se ne sono accorti.
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