Nei prossimi giorni il governo Renzi dovrà presentare alla Commissione europea sia i documenti di finanza pubblica sia il programma nazionale di riforma. Negli stessi dovrebbe trovare adeguato rilievo la spending review (Sr), elaborata con il coordinamento del commissario Cottarelli, della quale ci interesseremo qui nei suoi aspetti generali.
Le origini della spending review. Il suo motto deve essere “spendere meno e meglio”. Da quasi 40 anni l’Italia ci prova ma con successi scarsi e così adesso siamo arrivati all’ultimo stadio. La nostra storia sulla Sr (anche se questa è una denominazione recente) inizia alla metà degli anni 70 in seguito all’accelerazione vertiginosa della spesa totale delle amministrazioni pubbliche che passa dal 32,7% sul Pil del 1970 al 40,8% del 1980 per superare il 55% alla metà degli anni 90. Una forte correzione per l’entrata nell’euro la portava verso il 45% del 2000 dopodiché la spesa pubblica risaliva al 48,7% del Pil nel 2006, riscendeva al 47,85% nel 2007, e quindi ripartiva toccando il 51,9% per poi assestarsi sul 51% del Pil. Gli interessi sul debito pubblico hanno certo pesato con picchi all’inizio degli anni ’90 ma dagli anni 2000, salvo la tregua del 2007, è peggiorata soprattutto la spesa primaria.
Per controllare la quantità e la qualità della spesa si è oscillato tra tagli lineari e tentativi di Sr fino all’attuale programma di Cottarelli che è razionale sulle otto aree di intervento e che applica all’Italia le migliori pratiche di altri Paesi e dell’Ocse. La Sr nella sua presentazione, per ora composta da 72 slides che ne danno l’essenza, sottolinea che l’attuabilità e la selezione delle misure prefigurate dipendono dalle scelte politiche connesse agli obiettivi di bilancio e di riduzione di tassazione. È vero ma c’è anche altro perché il tasso di scelta politica varia da misura a misura e perché con le scelte sulla quantità e qualità di spesa pubblica si decide anche il sistema-Paese che si vuole (ri)costruire.
La nuova spending. In termini di risparmi di spesa e loro riallocazione, dovrebbe operare su 59 miliardi nei tre anni 2014-16. I risparmi lordi massimi calcolati sono di 7 miliardi nel 2014 (da ridurre pro quota su meno di 12 mesi), di 18 nel 2015, di 34 nel 2016.
Per la destinazione delle risorse, non tutte (e speriamo che questo non significhi troppo poche) potrebbero andare alla riduzione della pressione fiscale perché una parte è destinata all’abbassamento del deficit per la convergenza agli obiettivi di bilancio a medio termine prescritti dal fiscal compact. Inoltre i tagli di spesa, generando un calo indotto delle entrate, potrebbero incidere sui saldi di bilancio. Nella Sr si precisano alcuni aspetti generali. Il primo riguarda il welfare state, che non viene “stravolto”, e la spesa per l’istruzione pubblica che non viene “tagliata”. Il secondo è la distinzione tra le riforme strutturali con effetti sul triennio e quelle ad effetto rapido. La distinzione è piuttosto convenzionale in quanto quasi tutti gli interventi hanno effetti sul periodo 2014-2016 sia pure con diversa intensità. Chiara è anche la sottolineatura che lo svolgimento del cronoprogramma molto dipenderà dalle scelte politiche e dalla capacità di renderle esecutive.
La struttura della spending. Le cinque marco-aree di intervento con i relativi risparmi di spese sul triennio sono: efficientamento (per 19,4 miliardi); riorganizzazioni (7,9); costi politica (2); riduzione trasferimenti (13,5); settorialità: difesa, sanità, pensioni (15,1).
La presentazione della Sr di Cottarelli è impressionante nel mostrare quanto spazio di miglioramento c’è in Italia. Difficile darne un’illustrazione sintetica perché si va dalle riorganizzazioni che porterebbero a risparmi quantificati ma anche a forti aumenti di efficienza e riduzione dei costi onerati sui privati che andranno analiticamente calcolati. Poi ci sono risparmi per semplice eliminazione di sprechi e superamento di duplicazioni. Prendiamo solo due esempi. La digitalizzazione (fatturazione e pagamenti elettronici) porterebbe a un risparmio complessivo di 3,6 miliardi e aumenterebbe nettamente l’efficienza e la trasparenza delle Pa. I risparmi su consulenze, auto blu e illuminazione sarebbero di 1,2 miliardi. I costi della politica si potrebbero ridurre di 2 miliardi.
È evidente che il tasso di scelta politica sui risparmi non è uniforme perché mentre alcuni hanno natura puramente tecnica (digitalizzazione) altri hanno profili politici delicati (quelli sugli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale con possibili risparmi per 1,1 miliardi). Questo non basta però per respingere riforme di cui da troppo tempo l’Italia necessita.
I vincoli europei. La Sr esamina infine la distribuzione della spesa primaria delle Pa per dieci funzioni: servizi pubblici generali, difesa, ordine pubblico e sicurezza, affari economici, protezione dell’ambiente, abitazioni e assetto territoriale, sanità, cultura e istruzione, protezione sociale. I rapporti di queste spese sul Pil potenziale confrontati a quelli Uem rivelano che l’Italia è abbastanza allineata salvo che per una quota maggiore di pensioni e una minore di protezione sociale che nel saldo si compensano. L’altra funzione dove siamo sotto è istruzione e cultura. Per rispettare gli obiettivi europei di bilancio sul medio termine dobbiamo ancora ridurre il rapporto della spesa primaria sul Pil potenziale di 2,61 punti percentuali. Anche la media Uem deve scendere per rispettare la scelta dogmatica di rigore fiscale.
Conclusioni. La revisione della spesa primaria nella Uem è necessaria per rendere più efficiente ogni Paese ma se non viene compensata da spese in investimenti rischia di prolungare la pseudo-crescita. Ciò vale ancor più per l’Italia che con la Sr deve guadagnare efficienza e avviare la riduzione della pressione fiscale oggi quasi al 44%. Per questo il governo (che adesso potrebbe trovare una sponda nella Francia) deve far valere politicamente la Sr e le riforme istituzionali.
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