Le concessionarie di servizi in house devono avere regole di controllo certe. Il servizio, svolto in house, dal concessionario costituito con una società a controllo pubblico deve prevedere forti poteri di indirizzo della gestione da parte del comune, pena la sua illegittimità. Questa in buona sintesi è la massima della recente decisione del Tar della Toscana (sentenza n. 377 del 1° marzo 2011) che ha così deciso su un ricorso di una privato che chiedeva l’annullamento della deliberazione di un comune che aveva provveduto ad affidare direttamente il servizio di accertamento, liquidazione e riscossione del canone di pubblicità e del servizio delle pubbliche affissioni. La parte lamentava, nel caso specifico, l’illegittimità della procedura di affidamento, sotto alcuni profili, tra i quali la violazione del giusto procedimento, l’irragionevolezza e la disparità di trattamento, non ultimo anche l’eccesso di potere dell’amministrazione locale. L’affidamento in house, ad avviso del Tar della Toscana è legittimo, ed è prassi consolidata negli enti locali; e lo può essere anche in riferimento alla revoca di una gara già indetta per una procedura di affidamento di gestione di pubblici servizi, allorquando l’ente locale ravvisi che la gestione e la riscossione di entrate comunali possa essere maggiormente convenientemente gestita in house da una società a capitale pubblico. Ciò è confermato anche dalla sentenza n. 6137 del 30/11/2007 del Consiglio di stato. Neppure è inibito al comune di procedere in tal senso, avendo riguardo alla particolare attività di gestione di tali servizi che avendo caratteristiche di strumentalità non rientra nei servizi di pubblica rilevanza, sanciti dall’art. 23-bis del dl 112/2008 che pone particolari norme all’affidamento a soggetti sia pubblici che privati o anche a composizione mista, di alcuni servizi aventi rilevanza economica. Infatti, osservano i giudici amministrativi toscani, «trattandosi di attività strumentale che esula dall’ambito di applicazione dell’art. 23-bis, e che è invece disciplinata dall’art. 52 legge n. 446/97 e dall’art. 13 dlgs 223/06, deve quindi concludersi per la teorica ammissibilità dell’istituto dell’in house». I giudici ritengono però che devono osservarsi le modalità di gestione del servizio per giudicare sulla concreta possibilità dell’affidamento in proprio. La giurisprudenza, sul punto, verificando anche le precedenti decisioni del Consiglio di stato, ha chiarito che «il ricorso all’affidamento in house è legittimo solo allorché l’amministrazione pubblica eserciti sull’ente distinto un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi e qualora l’ente svolga la parte più importante della sua attività con l’amministrazione o con gli enti pubblici che lo detengono». L’analisi è stata poi rivolta sui poteri gestionali in seno alla società affidataria del pubblico servizio di accertamento e riscossione dei tributi locali, la quale deve poter consentire all’ente pubblico, un controllo analogo a quello effettuato per altri tipologie di pubblici servizi. In altre parole, occorre verificare che il consiglio di amministrazione della società di capitali affidataria in house non abbia rilevanti poteri gestionali, e che l’ente pubblico affidante (rispettivamente la totalità dei soci pubblici) eserciti, pur se con moduli societari su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario, caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria, sicché risulti indispensabile, che le decisioni più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante o, in caso di in house frazionato, della totalità degli enti pubblici soci. Nel caso in esame, invece il Tar ha riscontrato dallo statuto sociale che il consiglio di amministrazione della società in house godeva di poteri decisori pressoché assoluti, rispetto al vaglio dell’organo amministrativo, lasciando aspetti puramente formali all’ente locale, che non consentivano ad esso il controllo richiesto in merito alle decisioni prese dai vertici, ciò in stridente contrasto con i principi adesso elencati. Del resto, la decisione del Consiglio di stato dell’11/8/2010 n. 5620, a cui il Tar implicitamente si richiama aveva stabilito, che «gli enti partecipi alla società in house possono esercitare il controllo collettivamente, deliberando a maggioranza all’interno degli organi sociali in cui siedono i loro rappresentanti» e che i requisiti dell’in house providing, costituendo una eccezione alle regole generali del diritto comunitario, vanno interpretati in modo restrittivo. Tale fatto, che riveste una importanza generale, è stato ritenuto rilevante ai fini della decisione nel caso in esame, conseguendone, in concreto, che la procedura di affidamento mediante il ricorso all’istituto dell’in house è illegittima, difettando il requisito del controllo analogo in concreto richiesto per la sua applicazione.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento