E’ possibile conferire le funzioni di direttore generale al segretario comunale, ai sensi dell’art. 108 del dlgs. n. 267/2000, alla luce della norma di cui all’art. 2, comma 186, lett. d), della L. n. 191/2009, come integrata dalla L. n. 42/2010, che ne prevede la soppressione nei comuni con popolazione inferiore ai 100 mila abitanti? L’art. 2, comma 186, lett. d), della L. n. 191/2009 (legge finanziaria 2010), tra le misure di contenimento della spesa pubblica, prevede, alla lett. d), la soppressione del direttore generale, tranne che nei comuni con popolazione superiore ai 100 mila abitanti. Nella formulazione originaria, la soppressione di tale figura riguardava tutti i comuni e solo con le modifiche apportate al citato comma 186 dal dl. 2571/2010, n. 2, convertito dalla legge finanziaria 26 marzo 2010, n. 42, questa è stata reintrodotta per gli enti con popolazione superiore ai 100 mila abitanti. Una lettura sistematica della norma, coerente con la finalità perseguita dal legislatore e con l’orientamento espresso in materia dal dipartimento della funzione pubblica, fa ritenere venuta meno anche la facoltà, prevista dal comma 4 dell’art. 108 del dlgs. n. 267/2000, di conferire la funzioni del direttore generale al segretario comunale, nelle particolari fattispecie elencate nel comma stesso, tenuto conto che, in ogni caso, la normativa contrattuale disciplinante il rapporto di lavoro dei segretari comunali e provinciali prevede la corresponsione di un compenso per l’espletamento di dette funzioni. Per le stesse considerazioni, non è più consentita la facoltà prevista dal comma 3, del medesimo art. 108, di stipulare convenzioni tra comuni con popolazione inferiore a quella attualmente richiesta per il conferimento di tale incarico. Resta ferma, in ogni caso, la previsione contenuta nell’art. 97, comma 4, del più volte citato dlgs. n. 267/2000, che assegna tra i compiti ordinari del segretario, quella di sovrintendere e coordinare l’attività dei dirigenti.
INCANDIDABILITÀ DEI CONSIGLIERI – Quesito. Sussiste l’ipotesi di incandidabilità nei confronti di un consigliere comunale, condannato per il delitto di falso per induzione ai sensi degli artt. 110, 479 e 48 del Codice penale, se dalla lettura della sentenza di condanna emerge che l’interessato, all’epoca dei fatti, non rivestiva un incarico pubblico bensì ha agito nel quadro di un’attività di natura privatistica?
La giurisprudenza della Corte suprema ha costantemente affermato che la norma di cui all’art. 58, comma 1, lett. c) del dlgs. n. 267/2000, secondo cui non possono essere candidati alle elezioni coloro che sono stati condannati per un delitto commesso con abuso di poteri o con violazioni dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, non restringe la causa di decadenza ai soli soggetti che esercitano la pubblica funzione o il pubblico servizio, ma pone come condizione di ineleggibilità o di decadenza dalla carica elettiva soltanto la condanna per detti reati, indipendentemente dal fatto che il condannato sia esercente la pubblica funzione o il pubblico servizio, ovvero altro soggetto, che abbia agito in situazione di concorso col primo (cfr. cass. Civ. Sez. I, sent. n. 11140 del 27-7-2002, Cass. Civ., l Sez. I, sent. n. 7593 del 21-4-2004). La giurisprudenza ha, inoltre, precisato che il citato art. 58, comma 1, lett. c) nel prevedere, tra le cause ostative alla candidatura alle elezioni, la condanna con sentenza definitiva alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio (e diversi da quelli indicati nella lett. b) dello stesso comma 1, che costituiscono le figure criminose specifiche e singolarmente individuate), contiene una norma di chiusura volta a impedire l’esclusione dall’area della norma inabilitante di comportamenti non specificamente previsti ma ugualmente lesivi dell’interesse protetto, con la conseguenza che la predetta causa ostativa opera anche in ipotesi di condanna alla pena suindicata dell’autore mediato che, per ottenere dal pubblico ufficiale una falsa certificazione (conforme agli interessi del «decipiens») fornisca false dichiarazioni o sottoponga documenti falsi o alterati idonei alla formazione, da parte del «deceptus», dell’atto pubblico (cfr. Cass. Civ. Sez. I, sent. n. 2896 del 14-2-2004). Finalità della norma è, appunto, quella di impedire l’assunzione di pubblici uffici, ancorché elettivi, da parte di soggetti che a qualunque titolo siano rimasti implicati, al punto di riportarne condanna alla pena della reclusione, nella commissione di illeciti penali commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione (cfr. Cass. Civ., Sez. I, sent, n. 11140/2002). Nella fattispecie è, pertanto, sussistente la sopravvenuta causa ostativa alla permanenza in carica del consigliere e necessaria la comunicazione di cui al comma 4 del citato art. 58 T.O.U.E.L. per l’adozione dei provvedimenti conseguenti. Le risposte ai quesiti sono a cura del dipartimento affari interni e territoriali del ministero dell’interno.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento