La riforma degli incentivi alle rinnovabili non è solo un problema per il settore: è un’ipoteca per il paese. L’aspetto più grave non sta nella drastica riduzione dei pur generosi sussidi, quanto nell’ennesimo intervento a gamba tesa sulla certezza del diritto. I due autori di questo articolo hanno idee opposte circa le politiche di sostegno alle energie verdi: uno di noi ritiene che vi sia una prospettiva di sviluppo industriale, oltre che di sostenibilità, l’altro è scettico. Quello che ci sembra grave è il metodo: in questo caso la forma fa premio sulla sostanza. Sul merito si può discutere: è lecito, cioè, dividersi riguardo l’opportunità delle politiche europee sulle rinnovabili e su quello che dovrebbe essere il “giusto” prezzo da pagare. Preoccupa, invece, la volontà di cambiare le regole mentre si sta giocando. Sia per quel che riguarda i certificati verdi sia per il conto energia, il governo fissa delle scadenze temporali incompatibili con l’installazione della capacità già autorizzata e, a maggior ragione, di quella in via di autorizzazione. Nel caso del fotovoltaico, poi, il tiramolla sull’introduzione di un tetto superato il quale i sussidi cesseranno è una sorta di “generatore casuale di incertezza”. La faccenda è molto semplice: si può decidere che le rinnovabili non sono più nell’interesse del paese, si può perfino fissare una soglia oltre la quale la festa è finita, ma tutto ciò deve avvenire da un lato facendo salvi gli investimenti che sono stati avviati sulla base del precedente quadro di incentivazione, dall’altro creando un orizzonte di certezza perché le imprese che investono, e le banche che finanziano, possano predisporre un business plan stabile. Altrimenti si arriva al paradosso: per colpire speculazione e malavita (intento originario del legislatore), si colpisce l’intero mercato. Come se, per catturare Gambadilegno e Macchianera, il commissario Basettoni bombardasse tutto il circondario. Peraltro, infiltrazioni mafiose e comportamenti speculativi trovano origine proprio nell’interstizio di arbitrarietà e incertezza che deriva dalla continua stratificazione normativa e dall’onerosità e discrezionalità delle procedure. Sebbene le vittime designate del decreto siano le rinnovabili, esso – come la bomba – si abbatte su tutta l’economia italiana, senza fare prigionieri. C’è infatti un filo rosso tra questa riforma e una serie di altri interventi, dalla Robin Tax su «petrolieri, banche e assicurazioni» (che in realtà colpì tutto il settore energetico) alle riscritture delle concessioni autostradali, dal surreale boicottaggio ad Arenaways fino ai bizantinismi autorizzativi che hanno frenato i rigassificatori. Questo decreto, in altre parole, è l’ultimo di una serie di puntini che, se uniti, restituiscono l’immagine di un paese contraddittorio e inaffidabile: un paese che non mantiene le promesse e che ha un quadro regolatorio continuamente cangiante. Un paese, cioè, allergico agli investimenti, e che infatti è la cenerentola sia degli investimenti diretti esteri che dell’innovazione. Un paese dal quale stare alla larga. Un paese, ahinoi, che avrebbe invece un drammatico bisogno di investimenti ad alta intensità di capitale, e che però proprio quegli investimenti complica – o fa lievitare di costo – a causa della percezione di un costante ma incontenibile rischio politico. Le rinnovabili, da questo punto di vista, non sono diverse da nucleare, rigassificatori, autostrade, ferrovie: più che di sussidi, c’è bisogno di certezza. Il governo ha il diritto di ripensare le sue politiche in merito alle rinnovabili, non di calpestare il mercato. Questo decreto mette il doppiopetto a tutti i comitati del no.
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