Sanità, rivoluzione nelle spese livelli standard per tutte le Regioni

La riforma

Repubblica
1 Luglio 2010
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ROMA – Addio al “capitalismo municipale”, addio alle finte invalidità, addio all’Iva usata dalle Regioni come un bancomat, addio agli sprechi nella sanità, addio alla stagione dei finanziamenti europei buttati dalla finestra. Addio a tutto questo. Forse. In attesa che il federalismo fiscale diventi concreto (non prima del 2016) e in attesa di capire se costerà o se ci farà risparmiare (il velo verrà alzato solo nei prossimi mesi), la Relazione sul federalismo fiscale che il governo ha approvato e presentato al Parlamento dice soprattutto perché non funziona «l’albero storto» (Giulio Tremonti) della finanza pubblica italiana. Racconta delle tante «anomalie» e «asimmetrie» stratificatesi nei decenni. Parla di Cavour, Mazzini, Minghetti, Turati, Sturzo a Alexis de Toqueville, per dire che bisogna puntare alla «massima possibile coincidenza tra la cosa amministrata e la cosa tassata» secondo il principio liberale “no taxation without representation”, che nelle versione tremontian-leghista diventa anche “vedo-voto-pago”. Insomma un metodo, innanzitutto, per arrivare all’obiettivo del federalismo fiscale. Dal quale ci separa una cinquina di decreti attuativi da qui al prossimo anno. Poi altri cinque anni (più o meno) di applicazione graduale. Il federalismo fiscale non costerà (l’ha assicurato ieri Tremonti accanto a Umberto Bossi) e dovrebbe tradursi in minore spesa pubblica nell’ordine, stando alle stime dei tecnici che stanno lavorando al progetto, di circa 10 miliardi di euro. Nulla di ufficiale, però. Il perno di questa riforma è il passaggio dalla spesa storica (lo stato continua a trasferire agli enti locali le risorse in base a quanto hanno speso nel passato) ai costi standard, calcolati in base a quanto effettivamente è necessario (per le spese sanitarie, in particolare) e sulla base delle migliori pratiche regionali. Si applicherà lo stesso metodo degli studi di settore, coinvolgendo direttamente i soggetti interessati (gli enti locali) senza «formule calate dall’alto». In questa chiave avrà un ruolo importante la Società per gli studi di settore (Sose), che oggi gestisce e aggiorna circa 206 studi di settore relativi a una platea di 3,5 milioni di contribuenti. Insomma fabbisogni standard tendenzialmente definiti su misura delle realtà locali. Scrive Tremonti: «Non è una cifra ma, piuttosto un metodo, la formula necessaria per la determinazione dei fabbisogni standard». È con la spesa storica che si è creato il buco nero della sanità che oggi rappresenta quasi l’80 per cento dei bilanci regionali. I costi standard dovrebbero impedire che una siringa possa costare in Sicilia il doppio di quanto costa in Toscana e una Tac identica il 36 per cento in più nel Lazio rispetto all’Emilia Romagna. Con la conseguenza che dove sono «maggiori i disavanzi economici, minore è la qualità e la sicurezza delle cure rese ai cittadini». Ai Comuni passerà la titolarità delle imposte sugli immobili. Tremonti ne immagina una sola che dovrebbe assorbire tutte quelle esistenti. Ma, dalla tassazione, «sarebbe comunque esclusa la prima casa, destinata a restare esente dal tributo, con la previsione di una cedolare secca sugli affitti». La Relazione non indica la relativa aliquota ma dovrebbe essere al 20 per cento.

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