Rischio impasse nei consigli dei comuni fra 3.000 e 5.000 abitanti. Tutto nasce dall’art. 16, comma 17, della manovra di Ferragosto (dl 138/2011), il quale, come noto, ha rivisto la «pianta organica» degli organi consiliari nei municipi più piccoli, prevedendo riduzioni differenziate per fascia demografica.
In particolare:
- per i comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti, il consiglio è composto dal sindaco e da 6 consiglieri;
- per i comuni con popolazione superiore a 3.000 e fino a 5.000 abitanti, sono previsti 7 consiglieri, oltre al sindaco, per un totale di 8 membri;
- per i comuni con popolazione superiore a 5.000 e fino a 10.000 abitanti, il numero degli scranni consiliari sale a 11 (sindaco compreso).
La nuova composizione scatta a decorrere dal primo rinnovo elettorale successivo al 14 settembre 2011 (data di entrata in vigore della l 148/2011, di conversione del citato dl 138/2011). Il predetto comma 17, infatti, non è stato interessato dallo slittamento temporale previsto dal decreto «milleproroghe» 2012 (dl 216/2011, convertito dalla l. 14/2012; si veda ItaliaOggi del 27 novembre 2011).
Quindi, i comuni reduci dalla tornata elettorale del 6-7 maggio fanno già i conti con le nuove regole, che risultano particolarmente problematiche per gli enti della fascia intermedia (3.000-5.000 abitanti).
In tal caso, infatti, i componenti del consiglio (includendo anche il sindaco) sono in numero pari (8, come già detto). Ciò aumenta decisamente le probabilità che le votazioni si concludano in pareggio. In linea generale, infatti, per l’approvazione delle deliberazioni (e di ogni altro provvedimento), è necessario il voto favorevole della metà più uno dei presenti.
È evidente, quindi, che possono presentarsi non poche difficoltà nel funzionamento degli organi dei comuni in questione, di cui il legislatore non sembra aver tenuto adeguatamente conto. È pur vero che l’art. 71, comma 8, del Tuel prevede che alla lista collegata al candidato alla carica di sindaco che ha riportato il maggior numero di voti siano attribuiti due terzi dei seggi assegnati al consiglio (con arrotondamento all’unità superiore qualora il numero dei consiglieri da assegnare alla lista contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi). Il che significa che ogni primo cittadino, nei comuni in questione, può contare (oltre a se stesso) su ben cinque degli altri sette consiglieri.
Ma ciò non esclude che alcuni consiglieri di maggioranza decidano di votare in senso opposto agli orientamenti del proprio gruppo consiliare.
In tali casi, se voti a favore e voti contro il provvedimento proposto dovessero equivalersi, la votazione sarebbe infruttuosa.
Infatti, a livello legislativo non sono previsti meccanismi volti a risolvere in modo strutturale una simile situazione di impasse. Anche quando la legge prevede qualcosa al riguardo (ad esempio, allorché, in caso di votazioni riguardanti le persone, sancisce la prevalenza del candidato più anziano) si tratta di eccezioni tassative alla regola generale.
È un problema serio, che rischia di compromettere il regolare funzionamento della macchina comunale. Non va trascurato, inoltre, il rischio che si creino meccanismi perversi, con l’accentuazione del potere di ricatto di singoli consiglieri nei confronti dei primi cittadini.
Una possibile via d’uscita potrebbe essere il regolamento consiliare, cui l’art. 38, comma 1, del Tuel rimette (nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto) la disciplina del funzionamento dei consigli e, fra l’altro, delle modalità per la presentazione e la discussione delle proposte. Per esempio, si potrebbe prevedere (come già avviene in molti regolamenti vigenti per la Giunta) che in caso di parità di voti prevale quello del sindaco. Ma si tratterebbe di una previsione di dubbia legittimità, solo in parte attenuata dal fatto che il regolamento deve essere approvato a maggioranza assoluta. Non a caso, la gran parte dei regolamenti vigenti prevede che in caso di parità di voti la proposta si intende non approvata.
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