Dopo l’approvazione da parte del Governo al testo del decreto attuativo della riforma PA in materia di “partecipate”si apre l’importante e delicato capitolo relativo agli esuberi di queste ultime. Ricordiamo che la riforma impone la chiusura o l’alienazione delle aziende troppo piccole, di quelle con più amministratori che dipendenti e, a livello complessivo, di quelle che non rientrano nei servizi pubblici locali o negli altri settori di attività consentiti per l’intervento della Pubblica Amministrazione.
In tale direzione risulta ora decisiva la gestione del personale in esubero alla luce dell’obbligo di sfoltire la rete delle partecipate pubbliche: questo il nodo più delicato del processo di riordino che si inserisce nel grande iter di cambiamento della Pubblica Amministrazione italiana. 30 giugno 2018 è la data da segnarsi in rosso sul calendario: dopo tale termine, le società potranno ricominciare ad assumere secondo le procedure ordinarie, senza più l’obbligo di dover attingere dagli elenchi degli esuberi (ad eccezione di quello che concerne profili professionali specifici e assenti fra le “eccedenze”). La data, insieme alle modifiche profonde a cui è andato incontro nel corso dell’esame parlamentare l’articolo che il decreto dedica al nodo esuberi, conferma che la questione è realmente complessa.
I numeri
In primo luogo è necessario citare i numeri che fanno comprendere la portata del fenomeno: nel dossier elaborato dal vecchio commissario alla “spending review” Carlo Cottarelli nel 2014, si leggeva che nelle partecipate lavorano 501mila persone. Il calcolo è probabilmente per difetto, perché una quota di società sfugge puntualmente ai censimenti nazionali, ma rende certamente l’idea della mole di persone che sono coinvolte in tale questione. I sindacati hanno parlato di un “rischio esuberi” per 150mila persone: numeri importanti.
Le cesoie” del decreto attuativo in questione si abbattono in primo luogo sulle mini-società prive o povere di personale, ma anche le aziende più grandi controllate dallo Stato o dagli enti territoriali vengono chiamate a ridurre i propri organici per contenere i costi: in questo senso i processi di aggregazione che la riforma prova a spingere potranno avere effetti ulteriori sull’occupazione.
I passaggi da effettuare
Il primo “step” che si staglia ora all’orizzonte è quello della “ricognizione del personale in servizio”, che le società a controllo pubblico devono effettuare entro il termine di 6 mesi al fine di individuare le “eccedenze”. Il personale in eccesso verrà affidato in prima battuta alle Regioni, che dovranno favorire la mobilità incrociando la domanda e l’offerta di lavoro sul territorio con gli strumenti che saranno individuati da un ulteriore decreto (l’elenco del personale eccedente, con la puntuale indicazione dei profili posseduti, dovrà essere trasmesso alla Regione nel cui territorio la società ha sede legale). Dopo un altro termine di 6 mesi toccherà all’Agenzia nazionale per il lavoro, la quale dovrà gestire gli esuberi che ancora rimangono con le politiche attive che nel frattempo saranno strutturate. Va sottolineato a tal riguardo che al personale in esubero potranno essere applicati tutti gli ammortizzatori sociali previsti dalla riforma del lavoro e dalle normative regionali.
Viene inoltre previsto uno specifico meccanismo di gestione dei processi di mobilità: prima di poter effettuare nuove assunzioni, le amministrazioni pubbliche, nel caso di reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati affidati ad una società partecipata, dovranno procedere al riassorbimento delle unità di personale già dipendenti dall’amministrazione e passate alle dipendenze delle società interessata.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento