Nell’ipotesi che il dipendente pubblico abbia percepito dall’amministrazione di appartenenza delle retribuzioni maggiori rispetto a quelle dovute, erogate per errore, spiegano i giudici, è necessario che queste siano restituite anche se è dimostrata la buona fede del dipendente.
Il caso emerge dalla pronuncia della Corte d’appello che aveva rigettato l’appello proposto da una dipendente nei confronti del ministero dell’Economia e delle Finanze, avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale. La direzione territoriale da cui dipendeva la ricorrente dopo avergli comunicato che a suo carico si era formato un indebito per oltre 33mila euro invitava la stessa a restituire la somma entro trenta giorni a mezzo o di conto corrente postale o di versamento contanti o di bonifico di tesoreria, con la precisazione che ove la stessa “non si trovasse nella possibilità di effettuare il versamento in unica soluzione” avrebbe potuto inviare apposita istanza intesa ad ottenere una rateizzazione del debito.
I giudici della Cassazione rammentano che un orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità afferma che “in materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell’indebito proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora, risulti accertato che l’erogazione è avvenuta sine titulo, la ripetibilità delle somme non può essere esclusa ex art. 2033 c.c. per la buona fede dell’accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi”.
Dall’analisi del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, osservano i giudici, per la giurisprudenza contabile la non ripetibilità dell’indebito non è connessa al solo decorso del tempo o alla sola buona fede, ma ad una pluralità di fattori che devono concorrere.
>> CONSULTA LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE 20 FEBBRAIO 2017, n. 4323.
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