Addio alle indennità varie pensate per attutire la fatica del trasloco dei dipendenti che cambiano sede, dopo che le manovre estive riprovano con più forza del passato a rilanciare la mobilità negli uffici pubblici, dimezzamento delle gratificazioni nelle ambasciate, accorpamenti nelle scuole, una stretta ai segretari comunali e una rimodulazione dei tetti per i contratti a termine negli enti locali Sono gli ingredienti che la legge di stabilità varata dieci giorni fa dal Governo dedica al pubblico impiego, ma tutto lascia pensare che si tratti solo di un assaggio. L’addio ai buoni pasto, che ogni armo costano un miliardo di euro secondo le stime del Governo, è sparito dalle bozze della legge con la stessa rapidità con cui era comparso, anche per i problemi applicativi che sollevava (non ultimo la distruzione di un business per le aziende di ticket restaurant). L’episodio, però, mostra bene quanto la temperatura sul tema sia ancora alta e i passaggi parlamentari della legge promettono di produrre ulteriori novità. Il tutto mentre il personale dello Stato e degli enti territoriali attende che si traducano in pratica per decreto le misure già vagheggiate a luglio, all’interno di quella che si configura come una manovra infinita sul pubblico impiego. La bufera sui lavoratori di Stato ed enti locali che si è scatenata in larga parte dell’Europa, trova per l’Italia ragioni particolari anche nei numeri dei confronti internazionali, come quelli effettuati puntualmente dall’Ocse. Secondo l’edizione di quest’anno del « Government at a glance», la rassegna sugli indicatori chiave della pubblica amministrazione nei Paesi sviluppati, in Italia è impiegata nel mondo pubblico il 14,9% della forza lavoro del Paese: certo, nulla a che vedere con le percentuali fra il 22 e il 29% che si registrano nei Paesi scandinavi, ma più che il valore assoluto conta la sostenibilità del pubblico impiego in rapporto alle forze di ogni bilancio nazionale. A questo riguardo, le tabelle dell’Ocse mostrano anche un paio di dati non troppo tranquillizzanti: in Grecia e Portogallo, due degli epicentri dell’austerity europea sugli statali, il rapporto fra dipendenti pubblici e totale dei lavoratori è più basso del nostro. Ancora più chiaro il problema se il confronto punta ai «migliori», cioè ai tedeschi: in Germania il personale pubblico è il 9,6% della forza lavoro, e il peso degli stipendi pubblici sul Pil si ferma al 7,5%, contro l’11,2% del nostro Paese (a fornire quest’ultimo dato sono Aran e Bankitalia);come accade per il debito pubblico su cui vigila Bruxelles, anche per questo indicatore le brutte notizie arrivano dall’andamento del Pil, al denominatore, più che da quello dei salari pubblici, al numeratore. La pioggia di misure che negli ultimi tre anni si sono abbattute su organici e stipendi hanno stoppato la corsa delle retribuzioni degli statali, che nel 2008 erano aumentate del 4%, mentre nel 2010 si sono fermate a un +1,3% e nel primo semestre del 2011, come rilevato dall’ultimo rapporto dell’A-ran, hanno messo in cascina un modesto aumento dello 0,7 per cento. I numeri dei confronti internazionali elaborati dall’Ocse si riferiscono invece al 2008, e quindi servono prima di tutto a spiega- re le misure introdotte dal Governo a partire dalla prima manovra estiva di questa legislatura, che a regime dovrebbero alleggerire la Pa di oltre 300mila dipendenti, ma la storia della razionalizzazione degli organici pubblici è tutt’altro che chiusa. A livello centrale, i ministeri sono impegnati in una spending review che chiede risparmi importanti e minaccia tagli (fino al 30%) nelle retribuzioni di risultato dei dirigenti responsabili dei settori in cui gli obiettivi verranno mancati. Ad ogni buon conto, è la stessa manovra varata dal Governo all’inizio dell’estate a definire i risparmi ulteriori che il bilancio pubblico deve raccogliere dal pubblico impiego nei prossimi anni: si tratta di 30 milioni di euro per il 2013, 740 milioni nel 2014, 340 nel 2015,370 all’anno dal 2016. La dinamica indicata della manovra mostra che in gioco ci sono risparmi strutturali, che tolgono ai dipendenti pubblici qualsiasi residua speranza di vedersi restituite in futuro le risorse sottratte dai sacrifici di oggi. Per centrare lo scopo, il ministero dell’Economia e quello della Funzione pubblica hanno solo l’imbarazzo della scelta nel pacchetto di misure ipotizzato nella manovra di luglio: le più pesanti sono la proroga dei vincoli al turn over, fondati sulla regola generale di un’assunzione ogni cinque uscite, e quella del congelamento degli stipendi, con l’ipotesi di tenere in vita l’erogazione delle indennità di vacanza contrattuale fino al 2017; con tanti saluti al potere d’acquisto delle buste paga. Nel frattempo, il Governo prova a porre le basi anche delle misure più “indirette”, a partire da quelle organizzative. Ogni amministrazione deve infatti predisporre un piano triennale di riorganizzazione, i cui risparmi potrebbero rivitalizzare un po’ la contrattazione integrativa. In questo quadro, il rafforzamento della mobilità (che dopo la manovra-bis può essere disposta d’ufficio se non si cambia regione e può spostare il dipendente anche in un ambito diverso da quello d’inquadramento) potrebbe aiutare a evitare che i piani triennali rimangano pura teoria.
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