Il cammino per far tornare in equilibrio il bilancio pubblico italiano non può che essere composto anche di tante, apparentemente piccole riforme. Nel campo della spesa pubblica di piccoli passi ce ne sono alcuni che avrebbero il pregio non solo di tagliare la spesa pubblica, ma anche di renderla più efficiente. Il riferimento è sia all’abolizione delle province, sia all’accorpamento dei piccoli comuni: due scelte di cui ogni tanto si parla anche a livello politico-elettorale, ma che vengono poi sistematicamente abbandonate tra la politica del rinvio a livello nazionale e la difesa degli interessi particolari a livello locale. Eppure la semplificazione della foresta degli oltre 8mila comuni italiani costituirebbe un passo nel senso dell’economicità e dello stesso rispetto degli obblighi costituzionali che prevedono l’uguaglianza dei diritti di ogni singolo cittadino. Lo spiega Giuseppe Castronovo («L’accorpamento dei piccoli comuni», Rubbettino) in un’analisi documentata e disarmante. Si apprende, per esempio, che Piemonte e Lombardia hanno più di mille comuni con meno di 5mila abitanti; che i piccoli comuni rappresentano il 72% di quelli italiani, ma in essi vive solo il 19% della popolazione; che un quinto dei piccoli comuni è nelle Regioni a statuto speciale; che la popolazione nei piccoli comuni tende sempre più a diminuire: Morterone, in provincia di Lecco, è passato da 279 abitanti nel 1951 ai 33 abitanti attuali. Non c’è comunque solo l’esigenza di contenimento della spesa pubblica. C’è il dovere di adattare la dimensione istituzionale ai cambiamenti di carattere regolamentare, con i maggiori poteri conferiti ai comuni dal federalismo fiscale. C’è la necessità di tener conto dei cambiamenti demografici con lo spostamento della popolazione dalle campagne alle città, dalle valli alle pianure, dal sud verso il nord. C’è l’oggettiva difficoltà da parte dei piccoli comuni di fornire ai cittadini tutti i servizi di cui hanno non solo bisogno, ma diritto: e questo anche con l’intervento di consorzi, comunità montane, contratti di servizio che possono in qualche modo supplire alle piccole dimensioni. Il tema peraltro è antico come l’Italia. Era il 1860 quando Luigi Carlo Farini, ministro dell’Interno, proponeva l’accorpamento dei comuni con meno di mille abitanti, ma fu presto sostituito da Marco Minghetti, che lasciò cadere la proposta. Qualcosa fece il fascismo: con il regio decreto del 17 marzo 1927 fu dato al Governo il pieno potere di «una revisione generale delle circoscrizioni comunali per disporne l’ampliamento o la riunione». Subito dopo la guerra, però, non solo si ricostituirono i comuni soppressi, ma iniziò la prassi di crearne di nuovi. I comuni in Italia erano 7.810 nel 1951, sono ora diventati 8.094. E così anche le province sono cresciute, passando da quota 91 alla fine della guerra alle 110 attuali. Questo dimostra come l’Italia sia ormai in una fase politica in cui anche le piccole riforme appaiono difficili, complesse, ricche di ostacoli e di resistenze. All’estero, dalla Germania alla Danimarca, è in atto ormai da anni un processo di razionalizzazione. Nel Canton Ticino, per esempio, negli ultimi dieci anni sono state realizzate 16 aggregazioni che hanno interessato più di 50 comuni, attraverso studi preliminari, discussioni politiche, naturalmente votazioni popolari, senza dimenticare uno stanziamento finanziario del governo cantonale. In Italia il tema viene considerato impopolare. Eppure dovrebbero essere proprio i cittadini dei piccoli comuni a non voler mantenere una dignità solo di facciata, ma a cercare tutte le strade per avere servizi e diritti come i cittadini delle città.
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