L’affidamento di servizi pubblici locali a società partecipate mediante il modulo dell’«in house providing» deve essere comunque fondato sui presupposti richiesti dall’ordinamento comunitario. L’abrogazione dell’articolo 23-bis della legge n. 133/2008 a seguito del referendum elimina i presupposti particolari che dovevano guidare le amministrazioni nell’analisi di sostenibilità del particolare modulo, nonché l’intera procedura relativa al parere obbligatorio dell’Agcm. Tuttavia il nuovo quadro di riferimento deve essere fondato sui parametri affinati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue a partire dalla sentenza Teckal del 1998, come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 325/2010. Secondo la normativa comunitaria, le condizioni che consentono questa soluzione gestionale sono tre e devono sussistere contestualmente: capitale totalmente pubblico, controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di «contenuto analogo» a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante. La Consulta richiama l’orientamento storico della Corte di giustizia Ue, per la quale le condizioni per l’affidamento diretto devono essere interpretate restrittivamente, poiché l’in house providing costituisce un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. L’eccezione è giustificata dal diritto comunitario sulla base di una valutazione per cui le tre condizioni escludono che l’in house configuri un rapporto contrattuale intersoggettivo (tra amministrazione e società affidataria) distorsivo del confronto concorrenziale, determinando invece una vera e propria relazione organizzativa (sancita come rapporto interorganico). L’elemento-chiave è individuabile nel controllo analogo, che deve tuttavia essere sostanziato con varie misure (norme statutarie, previsioni nei patti parasociali, disposizioni nel contratto di servizio), combinate in modo tale da permettere all’ente locale di esercitare un’influenza effettiva sui principali processi decisionali della società partecipata alla quale è stato assegnato il servizio pubblico in via diretta. Rispetto alle gestioni esistenti derivanti da affidamenti teoricamente impostati secondo il modulo in house, le amministrazioni locali sono chiamate a riesaminare gli strumenti di interazione con le affidatarie, al fine di eliminare possibili criticità che potrebbero evidenziarne comunque l’incoerenza con i necessari presupposti fissati in ambito comunitario. La configurazione di una società come gestore di un servizio in base all’in house providing e quindi quale organismo del sistema pubblico allargato ne determina la sottoposizione alle stesse regole organizzative e contabili. L’abrogazione dell’articolo 23-bis e l’inapplicabilità del Dpr n. 168/2010 non incidono sull’assoggettamento delle società affidatarie dirette di servizi pubblici all’articolo 18 della legge n. 133/2008, con conseguente obbligo di adozione di regole parapubblicistiche per il reclutamento di risorse umane e con il necessario contenimento della spesa per il personale, come più volte evidenziato dalla Corte dei conti. I presupposti tipici dell’in house corrispondono peraltro ai caratteri identificativi degli organismi di diritto pubblico (personalità giuridica, istituzione finalizzata al soddisfacimento di esigenze di interesse generale, gestione soggetta al controllo totalitario di amministrazioni pubbliche): pertanto le società affidatarie dirette di servizi pubblici locali secondo tale modulo sono senza dubbio qualificabili come Odp e devono applicare alle loro procedure di acquisto e di appalto le regole del codice dei contratti pubblici.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento