Per avere risparmi veri servono scelte autonome

Il Sole 24Ore
26 Settembre 2011
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Con la “stratificazione normativa” che si è creata e il cui ultimo “strato” è il decreto 138/2011 modificato, si disegnano per i Comuni tre condizioni parallele: la prima riguarda i circa 2000 municipi sotto i mille abitanti, obbligati a spogliarsi di buona parte del vertice politico e obbligati a gestire in modo associato tutte le funzioni; la seconda condizione riguarda i Comuni fra i mille e i 5mila abitanti (circa 3.700), fra poco assoggettati al patto di stabilità interno e costretti a gestire le funzioni fondamentali (elencate dalla legge 42/2009) in Unione. Infine la terza condizione (che non presenta obblighi), interessa i Comuni da 5.001 un abitante in su (circa 2.400), da sempre assoggettati al patto inasprito, che però nel 2012 subiranno un taglio cumulato di risorse mai vissuto dal dopoguerra. Infatti, essendo diminuita drasticamente l’autonomia finanziaria degli Enti con l’abolizione di una parte dell’Ici, i trasferimenti possono arrivare a coprire fino a due terzi delle spese correnti di questi Comuni. Il taglio ancora in essere sui trasferimenti è previsto dal decreto 78/2010 e, dopo aver ridotto nel 2011 i trasferimenti dell’11%, nel 2012, li alleggerisce di un altro 20%, cumulando l’effetto al 31 per cento. Ne deriva che i Comuni con più di 5mila abitanti potrebbero effettuare una riduzione di spesa di oltre il 20% nel 2012 rispetto al 2010. L’ordine di grandezza di questi tagli per lo Stato è di 4 miliardi.
La manovra si è concentrata molto su obblighi e costrizioni per i Comuni sotto i 5mila, accanendosi sui costi della politica. Ma anche abolendo tutti i 21mila consiglieri e assessori dei Comuni sotto i mille abitanti, si recupererebbe una spesa pari a quella di 27 deputati. Per nulla significativa. Gli esperimenti delle Unioni che appaiono più capaci di assorbire i tagli del decreto 78/2011, dicono che dove ci sono molti abitanti (più di 80mila) e molti servizi associati si raggiunge nel medio lungo periodo un risparmio di quasi il 70% dei tagli richiesti, a parità di servizi. Morale: le Unioni producono vantaggi nel medio e lungo periodo solo se, esistono economie di scala.
La domanda allora è: chi ha più bisogno delle Unioni, i Comuni piccoli o quelli sopra i 5mila? Tutti, certamente, ma più i secondi dei primi. Forse la questione non riguarda i pochi Comuni italiani con più di 90mila abitanti, ma tutti quelli che ne hanno meno.
Dunque, sempre leggendo il 138, viene da chiedersi, se è vero che le tre classi di Comuni sono mescolate nella distribuzione spaziale: cosa succede se i Comuni sopra i 5mila non hanno nessuna voglia di conferire servizi alle Unioni? Perché in tal caso gli altri sarebbero comunque obbligati con due discipline parallele ad associarsi, ma senza le economie di scala per reagire a tagli, patto di stabilità, e senza miglioramento, semmai, di qualche servizio a imprese e cittadini.
Siccome così come è scritta la riforma, gli esiti appaiono caotici e poco incisivi la soluzione non è continuare a obbligare altri Comuni agli adempimenti di legge. Oggi infatti invece di descrivere le attività di ciò che si chiama Comune, si citano funzioni che hanno significati diversi lungo la penisola. Un impianto più semplice costruito dal punto di vista dei servizi al cittadino potrebbe vincolare gli Enti a obiettivi di riduzione della spesa minori di quelli previsti oggi, chiedendo alle Regioni di legiferare in materia di ambiti ottimali, ma lasciando alle autonomie locali l’autonomia gestionale per giungere al risultato, con un sistema di incentivi/sanzioni.

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