Le pensioni difendono quota 40, ma arretrano di tre passi sul tema dell’allungamento della vita lavorativa. E a pagare il prezzo più salato saranno le giovani generazioni. Questa la sintesi, in materia previdenziale, del maxi-emendamento alla manovra economica sul quale il senato ha già votato la fiducia (la camera sarà chiamata a votare lo stesso testo entro il 30 luglio). Il 1° luglio ItaliaOggi dava infatti notizia di un emendamento del relatore che avrebbe spostato in avanti la fatidica soglia dei 40 anni di lavoro, finora sufficienti per maturare il diritto alla pensione di anzianità. Si scatenava un putiferio e il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, era costretto a una marcia indietro, con la scusa che si sarebbe trattato di un refuso (smentito qualche giorno dopo dal collega Giulio Tremonti). Ma la quota 40 era salva. Il maxiemendamento però non rinuncia a porre un freno alla spesa previdenziale. E lo fa cucendo sull’ordinamento previdenziale tre nuove toppe: l’aggiornamento triennale a partire dal 2015 dei requisiti anagrafici sulla base dell’incremento della speranza di vita, l’allungamento delle finestre di uscita dal lavoro, l’innalzamento a 65 anni dell’età di pensionamento delle donne del pubblico impiego. Con la prima toppa si allungherà la permanenza al lavoro di due o tre mesi ogni tre anni. Con la seconda si costringono dipendenti e autonomi a lavorare qualche mese in più (senza alcuni beneficio sull’assegno pensionistico) prima di poter incassare la pensione. Con la terza toppa si viene a creare un gradone, per le donne del pubblico impiego, al di fuori da ogni logica. A ciò si aggiunga che, come si dimostra con l’articolo pubblicato a pag. 5, l’allungamento della vita media è causa anche di un’automatica revisione dei coefficienti di trasformazione. Il risultato, in questo caso, è una riduzione media del 10% dell’assegno previdenziale dei lavoratori attuali rispetto a chi è già in pensione. Tutte misure necessarie, se l’obiettivo è quello di salvare i conti pubblici dalla catastrofe. Il problema fondamentale è che tutte queste riforme finiscono per scaricare tutti i pesi sulle spalle delle giovani generazioni, che di fatto ben difficilmente possono oggi ipotizzare di andare in pensione prima dei 70 anni o prima di aver maturato 40 anni di contributi. Per quanto tempo saranno disposti a pagare le laute pensioni di chi li ha preceduti, con la prospettiva di andare a riposo con un tozzo di pane?
Pensioni, tre passi indietro
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