E’ sempre più diffusa la richiesta di una riforma del Patto di stabilità interno che consenta alle regioni e soprattutto agli enti locali di accelerare i pagamenti ai propri fornitori e, più in generale, di rilanciare gli investimenti pubblici. Gli ultimi dati diffusi da Anci-Ifel e Upi confermano, infatti, che la sua crescente rigidità ha comportato, negli ultimi anni, un drastico calo della spesa in conto capitale di comuni e province, finora avvertito soprattutto a livello di cassa, con l’inevitabile allungamento di tempi per il saldo delle fatture già emesse, ma che non tarderà a manifestarsi con nettezza anche sul piano della competenza, rallentando l’assunzione di nuovi impegni per l’avvio dei futuri progetti di sviluppo del territorio. Non stupisce, pertanto, che la revisione del Patto sia auspicata con forza, non solo dagli amministratori locali, ma anche dai rappresentanti delle categorie produttive, con in prima fila i costruttori edili, certamente fra i più penalizzati dalle regole vigenti. E proprio l’Ance ha suggerito come possibile soluzione quella della c.d. «regionalizzazione» del Patto, che avrebbe il pregio di conciliare le esigenze di flessibilità con quelle di stabilità dei conti pubblici. La regionalizzazione, infatti, non comporta un allentamento dei vincoli, ma solo una loro migliore distribuzione sulla vasta e variegata platea dei destinatari del Patto, consentendo di compensare, anche in una prospettiva pluriennale, le maggiori esigenze di spesa di alcuni con i risparmi di altri. Il Patto regionale, inizialmente attuabile solo dalle regioni speciali e province autonome, è ora ammesso anche per quelle ordinarie. Queste ultime, tuttavia, dispongono di poteri decisamente più limitati, potendo solo «adattare» o «integrare» la normativa statale, laddove le prime hanno sostanzialmente mano libera nella gestione degli obiettivi che concordano con lo stato. La legge di stabilità 2011 (legge 220/10) conferma questa asimmetria, imponendo alle regioni ordinarie un modello unico ed uniforme di regionalizzazione del Patto, che mal si adatta, con i suoi paletti e termini perentori, alla complessità dell’universo da governare. A ben vedere, una strada per assecondare tale aspirazione ci sarebbe: si tratta del c.d. regionalismo (o federalismo) differenziato, previsto dall’art. 116, comma 2, Cost., che consente alle regioni ordinarie di concordare con lo stato l’acquisizione di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» nelle materie di competenza esclusiva statale e concorrente. Fra tali materie, infatti, rientra anche il «coordinamento della finanza pubblica», cui è ascrivibile la disciplina del Patto. Si permetterebbe così alle regioni ordinarie più dinamiche di correre verso la mèta del federalismo fiscale, sperimentando buone pratiche che potrebbero poi essere estese alle altre realtà territoriali, come auspicato anche dal Fmi. Non sono poche le regioni ad aver già avviato l’iter previsto dall’art. 116, comma 2, Cost. ma nessuna lo ha ancora concluso.
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