Il dpcm 23 marzo 2011, finalmente pubblicato (si veda la G.U. n. 120 del 25-5-2011), ripartisce fra le province ed i comuni con più di 5.000 abitanti i 480 milioni di euro messi a disposizione dall’art. 1, comma 93, della legge di stabilità (legge 220/2010) per alleggerire il peso del patto di stabilità interno 2011. In proposito, occorre ricordare che il riparto era stato oggetto di un’intesa in Conferenza stato-città ed autonomie locali già nella seduta 2 febbraio scorso, ma per l’adozione del provvedimento, la sua registrazione e la successiva pubblicazione sono occorsi più di 3 mesi. I relativi contenuti, peraltro, sono stati anticipati dalla circolare della ragioneria generale dello stato n. 11/2011 (si veda ItaliaOggi del 15 aprile 2011). Una quota significativa del «fondo» disponibile prende la strada per Milano, nel tentativo di accelerare la realizzazione degli interventi connessi all’Expo 2015: l’intervento complessivo è di 130 milioni di euro (poco meno di un terzo del totale), con 110 milioni destinati a palazzo Marino e gli altri 20 alla provincia. Per gli altri comuni il bonus è fissato a quota 310 milioni, mentre le restanti province devono accontentarsi di 40 milioni. I criteri di riparto sono diversi in un caso e nell’altro. Per i comuni viene introdotta una clausola di salvaguardia che pone all’obiettivo di Patto un tetto calcolato in percentuale della spesa corrente media registrata (in termini di impegni) nel triennio 2006-2008. Per agevolare i piccoli comuni, è prevista l’applicazione di un coefficiente crescente in funzione della dimensione demografica di ciascun ente (5,4% per quelli con popolazione inferiore a 10.000 abitanti, 7% per quelli compresi fra 10.000 e 200.000 abitanti, 10,5% per gli altri). Il risultato è uno sconto a favore di circa 1.400 enti, perlopiù medi o medio-piccoli (l’unico grande comune nella lista dei beneficiari è Torino), con riduzioni dell’obiettivo che in alcuni casi limite (come Loreggia, in provincia di Padova) abbattono di circa il 90% l’obiettivo originario Per le province si considera, invece, l’incidenza percentuale della riduzione dei trasferimenti, operata con il decreto del ministero dell’interno del 9 dicembre 2010, sulla media delle spese correnti 2006-2008: laddove tale rapporto sia superiore al 7%, esse riducono il proprio obiettivo di un importo pari alla somma dei valori ottenuti moltiplicando la popolazione per 1,963 e la superficie territoriale per 248 (il risultato va poi diviso per mille per esprimere i dati in migliaia di euro). L’art. 3 del dpcm, infine, chiarisce che le entrate straordinarie originate dalla cessione di azioni o quote di società operanti nel settore dei servizi pubblici locali, nonché quelle derivanti dalla distribuzione dei dividendi determinati da operazioni straordinarie poste in essere dalle predette società, qualora quotate in mercati regolamentati, e le risorse relative alla vendita del patrimonio immobiliare sono considerate ai fini della verifica del rispetto del Patto. Tale previsione (che di fatto modifica l’art. 1, comma 105 della legge 220/2010 cit.), a differenza di quelle in precedenza richiamate, dovrebbe valere anche per gli anni successivi a quello in corso. Il Patto strozza gli investimenti. I 480 milioni ripartiti dal dpcm serviranno, dunque, ad alleggerire il patto 2011. Ma volgendo lo sguardo al passato, i comuni non hanno molti motivi per rallegrarsi. Se è vero infatti che gli obiettivi contabili sono stati perlopiù centrati, è anche vero che questo è accaduto spesso tagliando le spese «buone» e ricorrendo ad artifici contabili. È questa, in estrema sintesi, la fotografia del Patto di stabilità interno degli enti locali scattata dalla Corte dei conti nel rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica. Dai numeri elaborati dai magistrati contabili, relativi al 2010, emerge un grado di inadempienza al Patto decisamente marginale: se fra i comuni hanno sforato solo in 50 (2,2% del totale), a livello di province addirittura si registra una sola defezione. Confortante, come mostra la tabella in pagina, anche il confronto con il 2009, che evidenzia un deciso miglioramento della compliance complessiva. Dalla stessa tabella emerge anche la netta riduzione (-49%) della differenza fra saldo e obiettivo. Tale effetto è solo in parte è dovuto alle (ancora modeste) compensazioni orizzontali disposte dalla regioni nell’ambito del cosiddetto patto territoriale (assai meno significative di quelle verticali, che sono invece cresciute per dimensione e rilevanza ai fini del rispetto del Patto da parte dei beneficiari). In ciò si riflette soprattutto la crescente abilità di province e comuni nel centellinare le spese per non violare i limiti del Patto. Il problema (già noto) è che ad essere penalizzati sono soprattutto gli investimenti, che segnano un vistoso calo. Il dato più preoccupante è che la flessione si registra non solo in termini di pagamenti (-20% a livello comunale e -16,3% a livello provinciale), ma anche in termini di impegni, sintomo, scrivono i magistrati contabili, «di una stasi che colpisce il ciclo di ideazione e programmazione di nuove opere pubbliche, ancor prima della loro liquidazione». Viene segnalata, infine, la rilevanza crescente che va assumendo l’adozione di comportamenti (scelte gestionali o semplici meccanismi di contabilizzazione) di per sé legittimi, ma che sembrano presentare una connotazione elusiva della normativa sul Patto, in quanto posti in essere solo al fine di far risultare l’ente adempiente.
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