Il decreto enti locali parla di partecipate in un punto solo, quando si preoccupa di depotenziare la regola sulla dismissione delle aziende «non strettamente necessarie» allo svolgimento delle finalità istituzionali dell’ente proprietario; la liquidazione di queste società è prevista fin dal 2007, dopo svariate proroghe la legge di stabilità del Governo Letta ne aveva previsto la «cessazione» automatica entro fine 2015 e ora il provvedimento interviene per cancellare l’automatismo, chiarendo che le partecipazioni possono essere mantenute se previsto nel «piano di razionalizzazione» e che comunque l’ultima parola spetta all’assemblea dei soci.
Il «piano di razionalizzazione» è quello previsto dall’ultima manovra, che ha accolto solo una piccola parte del pacchetto Cottarelli e ha chiesto a enti territoriali, camere di commercio, università e autorità portuali di scrivere entro marzo scorso un programma per ridurre le partecipazioni, puntando soprattutto sull’addio a quelle «non indispensabili» per i propri compiti istituzionali (cioè le stesse appena graziate dal decreto votato dal Senato) e alle “scatole vuote”, dotate di più amministratori che dipendenti. Peccato, però, che questo piano l’abbiano scritto in pochi.
Il primo bilancio è stato diffuso ieri dalla Corte dei conti (deliberazione n. 24/2015), cioè dalla destinataria dei piani: entro il marzo prossimo i magistrati contabili dovrebbero verificare il tasso di attuazione delle promesse scritte nei piani, ma a giudicare dalle tabelle della relazione al Parlamento sulle partecipate locali diffusa ieri (delibera 24/2015 della sezione Autonomie) molti amministratori queste promesse non le hanno nemmeno presentate: su 8.069 enti interessati dall’obbligo (il conto esclude la Provincia di Bolzano) solo 3.570 hanno inviato il piano alle sezioni regionali, dunque il 56% delle amministrazioni per ora non ha presentato nulla. Poco male, in verità, perché l’obbligo non prevede sanzioni per gli inadempienti e il Parlamento, con scelta originale, ha deciso che il buco va riempito con i decreti attuativi della riforma Madia e non con il decreto enti locali.
Alla riforma della Pa toccherà anche mettere in campo il riordino vero delle partecipate, con tanto di piani di rientro, commissariamenti e addirittura liquidazioni obbligatorie delle società in perdita strutturale. E il lavoro, se i decreti attuativi saranno in linea con la delega, non mancherà. Le partecipate in perdita accumulano un rosso complessivo da 1,35 miliardi, e in sette Regioni (Umbria, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia) è negativo anche il “consolidato” delle partecipate, nel senso che le perdite superano gli utili. I problemi dei conti si confermano dunque più pesanti al Centro-Sud, dove anche i piani di razionalizzazione si fanno più rari a riprova di un sistema poco governato. C’è una tendenza, invece, che non conosce differenze fra le regioni, ed è quella a evitare la gara: la Corte ha contato solo 90 affidamenti competitivi a imprese terze contro 26.324 rapporti fra ente e partecipata, e 366 gare a doppio oggetto nei confronti di società miste.
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