Partecipate dei Comuni: una quota su 4 è «micro»

Finanza locale. Nel 25% dei casi il peso degli enti non supera il 2 per cento

Il Sole 24 Ore
22 Giugno 2015
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Le “sirene” della partecipazione comunale continuano ad ammaliare tutti i sindaci d’Italia. A piazzare la propria bandierina su un’azienda, pubblica o privata che sia, non rinuncia di fatto nessuno. Sono ben 7.780 i Comuni che hanno almeno una partecipazione in 5.374 imprese, pubbliche o private: il 97% dei municipi italiani.
L’ultimo aggiornamento lo fornisce la Fondazione Anci/Ifel in uno studio che sarà presentato mercoledì 24 giugno a Roma nella quarta conferenza sulla finanza locale, quest’anno dedicata a “Stabilità, equità e sviluppo: il contributo dei Comuni”. Tra gli spunti di riflessione ci sarà, appunto, anche questa fotografia , elaborata a partire dai dati Cerved-Pa, che prova a sezionare la galassia delle partecipazioni comunali, anche in base al “peso” delle quote acquisite. 

Il primo elemento che balza agli occhi è la polarizzazione: a un estremo, infatti, c’è un segmento, pari al 25% delle partecipazioni, che non supera il 2% del valore delle quote in mano ai sindaci. In pratica, una semplice “bandierina” di presidio. Tanto più che questo 2% rappresenta il peso complessivo dei Comuni nella singola realtà, quindi, in qualche caso, potrebbe addirittura essere spezzettato in più quote detenute da amministrazioni diverse. All’estremo opposto, invece, c’è una quota identica (25%) di in-house puro. In un quarto delle oltre 5mila aziende la presenza dei sindaci va oltre il 95 per cento. Si tratta naturalmente dei big del settore, di fatto le ex municipalizzate: dalle realtà del trasporto pubblico locale alla raccolta rifiuti e ai servizi idrici, che – come rileva anche l’Ifel – «operano in un contesto in molti casi orientato da normative regionali obbligatorie».

In mezzo c’è la grande fascia meno esplorata e – con ogni probabilità più “aggredibile” da qualsiasi tentativo di riforma e razionalizzazione – delle partecipazioni significative, ma non totalitarie, stratificate nel tempo, in gran parte generatrici di poltrone nei cda più che di utili o presidi strategici per l’interesse pubblico. Queste imprese, partecipate da uno o più Comuni in misura superiore al 20%, rappresentano il 58% del totale. Che cosa fanno?

A scorrere l’elenco dei 73 settori di classificazione Ateco – ancora una volta – si scopre che c’è di tutto, comprese alcune attività nient’affatto strategiche per le amministrazioni. Al primo posto (17%) domina, per esempio, la consulenza, settore che comprende oltre alle funzioni di advisor legale, contabile e tecnico, la pubblicità e le ricerche di mercato. Seguono l’energia e al terzo poso il commercio (farmacie escluse), che comprende persino la vendita di autoveicoli e motocicli. 

Ma lo studio dell’Ifel, coordinato da Riccardo Mussari, professore di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche all’Università di Siena, fornisce anche un altro importante spunto di riflessione: l’operazione pulizia in qualche Regione è già cominciata. La forbice dei Comuni che detengono partecipazioni è molto ampia. A fronte di una Valle d’Aosta con il 96% dei Comuni “imprenditori” e di un Molise appena sotto (94%), dall’altra parte sorprende il Lazio (25% di partecipazioni comunali, la percentuale più bassa), che tallona la Liguria (26%), la Toscana e l’Emilia Romagna, rispettivamente al 34 e al 32 per cento. Segno che la razionalizzazione in una parte del territorio è già realtà.

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