Il nuovo testo unico sulle partecipate è un provvedimento importante perché non era più rinviabile una decisa semplificazione del frammentato e incoerente quadro normativo preesistente, per ridurre le sempre maggiori difficoltà applicative e i numerosi difetti di coordinamento. In attesa di verificare sul piano operativo la tenuta organica del nuovo testo, due aspetti saltano all’occhio per le possibili ricadute.Anzitutto, si stabilisce espressamente che tutte le partecipate sono soggette al fallimento. Una scelta radicale, che suscita non poche perplessità in relazione alle società in house. Queste sono una longa manus dell’amministrazione socia, rispetto alla quale non è possibile riscontrare alterità soggettiva: la società si identifica sostanzialmente con l’amministrazione (Corte costituzionale, sentenza 50/2013; Cassazione, Sezioni unite, sentenza 26283/2013); tanto che la Pa esercita sulla società un controllo analogo a quello sui propri servizi e, a tal fine, gli amministratori della società sono privi di autonomia gestionale, posto che obiettivi strategici e decisioni significative spettano al socio pubblico.La fallibilità rischia quindi di fornire un facile (e deprecabile) escamotage per scaricare sui creditori sociali i debiti che, dietro il labile schermo della società in house, fanno di fatto capo alla Pa socia. Il che, a sua volta, rischia di essere un boomerang per simili forme organizzative, posto che i terzi – che, escludendo la fallibilità, potevano fare affidamento sull’obbligo del socio pubblico di ripianare le perdite e quindi (indirettamente) soddisfare i creditori – potrebbero, venuta meno questa tutela, avere più di una remora a contrattare con le in house, tanto più se già fortemente indebitate.In questa prospettiva appare poco più che un palliativo la previsione (articolo 12), comunque sacrosanta, che affianca alla comune azione di responsabilità verso gli organi societari la responsabilità per danno erariale del rappresentante dell’amministrazione per mancato esercizio (doloso o gravemente colposo) dei diritti spettanti al socio quando ne deriva la perdita di valore della partecipazione.A questi inconvenienti, quantomeno per il futuro, si potrebbe però ovviare stabilendo che la gestione esternalizzata dei servizi deve passare, quanto a quelli privi di rilevanza economica per l’adozione obbligatoria della forma dell’azienda speciale. Si escluderebbe così il ricorso al modello societario in un’area che, per sua natura, non consente una gestione in pareggio finanziario e, nel contempo, si garantirebbero i terzi creditori, che verrebbero a operare con un organismo (l’azienda speciale) tenuto (ex articolo 114 del Tuel) all’equilibrio economico.Una seconda riflessione merita il profilo relativo al personale. Il testo unico recepisce e aggiorna la normativa che mira a una decisa razionalizzazione delle società partecipate; e prevede che in caso di reinternalizzazione, che i soci pubblici, prima di procedere a nuove assunzioni, devono assorbire (nei limiti delle necessità di ricambio di personale) i dipendenti della società che gestiva il servizio. Per il personale che la società ha assunto senza concorso si prevede invece l’eventuale mobilità verso altra partecipata che, in caso di necessità, sarà obbligata ad assumere tra i nominativi segnalati in un elenco nazionale.Si tratta di un problema non più rinviabile che, se non risolto (con forme di incentivo all’esodo?), impedisce di fatto la riduzione delle partecipate, non essendo prospettabile in alternativa il ricorso a licenziamenti di massa, i cui costi sociali neutralizzerebbero e supererebbero i risparmi di spesa che si intendono conseguire con la razionalizzazione.
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