Rapido e facile da applicare: i tecnici hanno già individuato i pregi di un aggiornamento delle rendite catastali. Un intervento che potrebbe risolversi con un piccolo ritocco dell’articolo 3 della legge 662/1996, e che porterebbe all’Erario risorse fresche già dal 2012. Un aumento della percentuale di rivalutazione dal 5% al 10% vale circa 500 milioni di Ici all’anno, che diventano 1,9 miliardi se – ad esempio – si sale al 25 per cento. Cifre alle quali vanno aggiunti gli incrementi dell’imposta di registro sui trasferimenti e dell’Irpef sui redditi fondiari. Le ipotesi allo studio sono ancora più di una e variano tutte in funzione degli obiettivi da raggiungere sia in termini di cassa che di equità del prelievo. Anche il veicolo legislativo è ancora tutto da individuare: difficile pensare a una misura di questa portata nel decreto sulla crescita; più ipotizzabile un suo inserimento a supporto della legge di stabilità, la vecchia Finanziaria. Certo, i 62 miliardi stimati dal gruppo di lavoro sulla riforma fiscale guidato da Vieri Ceriani sono un importo molto più grande. Ma la differenza sta tutta nella fattibilità. Gli esperti, infatti, sono arrivati a quel totale ipotizzando di tassare il mattone “a valori di mercato”. Il guaio è che un’operazione del genere – oltre a comportare un pesante inasprimento del prelievo sugli immobili, già ai massimi in Europa secondo Confedilizia – richiederebbe comunque tempi lunghi per essere attuata, perché bisognerebbe individuare una base imponibile alternativa al valore catastale. E la riforma degli estimi, osservano spesso i funzionari dell’agenzia del Territorio, richiederebbe almeno quattro o cinque anni «a condizione che i Comuni facciano la propria parte». Ecco perché l’aggiornamento della percentuale di rivalutazione delle rendite catastali si presenta sicuramente come la via più praticabile. Vediamo un caso concreto. Ipotizzando un coefficiente di adeguamento del 25%, una villetta al mare con una rendita catastale di 1.321 euro all’anno (180 metri quadrati, 10 vani catastali, categoria A/7) passerebbe da 971 a 1.156 euro di Ici all’anno. L’Irpef sugli immobili a «a disposizione» salirebbe invece da 793 a 944 euro, immaginando che il proprietario sia nello scaglione che paga il 43% di imposte. Mentre, in caso di cessione tra privati, per l’acquirente con i requisiti prima casa l’aumento dell’imposta di registro sarebbe di circa 790 euro. Tutto questo, quanto meno, da un punto di vista tecnico. Sulla volontà politica di procedere, invece, la partita è ancora tutta da giocare, e dipenderà anche dal quadro generale di finanza pubblica e dalla possibilità di reperire risorse in altri campi, oltre che da considerazioni di politica fiscale. L’aggiornamento, ad esempio, potrebbe essere modulato in modo differenziato a seconda delle diverse categorie catastali, scegliendo di tenere la mano leggera su alcune tipologie di fabbricati. Si pensi agli immobili strumentali all’esercizio di attività d’impresa, che sarebbero penalizzati rispetto alle seconde case da un avvio anticipato al 2012 dell’Imu, la nuova imposta municipale. Allo stesso modo, sono puramente politiche le scelte in base alle quali – per il momento – l’ipotesi di tassare l’abitazione principale viene decisamente esclusa: Berlusconi ha fatto dell’abolizione dell’Ici sulla prima casa il proprio cavallo di battaglia fin dal 2008. Ma se il tabù dovesse venir meno, i Comuni potrebbero recuperare i 3,4 miliardi di euro persi nel 2008 con la cancellazione del prelievo sull’abitazione principale, arricchiti di una cifra variabile da 150 milioni (con aggiornamento delle rendite al 10%) a 600 milioni (con adeguamento al 25 per cento).
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