Dato numero uno: nel federalismo fiscale la finanza «derivata», figlia dei trasferimenti statali (e regionali), non è più ammessa, e gli assegni che ogni anno arrivano dal centro si devono «fiscalizzare», cioè trasformarsi in tasse locali. Dato numero due: i trasferimenti statali da «fiscalizzare », per ovvie ragioni di riequilibrio, puntano soprattutto nelle regioni meridionali, dove anche le basi del futuro fisco municipale (essenzialmente il mattone) sono più povere. Incognita: i comuni del Mezzogiorno, che hanno basi imponibili più modeste ma devono trasformare in tasse valori più consistenti, come faranno a centrare l’obiettivo senza alzare al massimo le aliquote? Il problema è serio, e finora inedito. A porlo per la prima volta, alla vigilia del decreto sull’autonomia fiscale dei comuni che dovrebbe vedere la luce prima della pausa estiva, è il rapporto annuale sul «quadro finanziario dei comuni» presentato giovedì scorso dall’Ifel, l’istituto per la finanza locale dell’associazione dei comuni. La fonte è «istituzionale », visto che l’Ifel è stato anche chiamato a collaborare con la Sose per la definizione dei fabbisogni standard dei comuni, e il rebus merita attenzione perché entra nel cuore della riforma: «Eccessi di semplificazione non sono permessi – avvertono i tecnici della finanza locale – , pena il grave rischio di fallimento dell’intero processo». Partiamo dai numeri. I trasferimenti statali da trasformare in tasse locali valgono in media 296 euro pro capite. In Campania, però, la somma assegnata per ogni residente sale a 376 euro (il 27% in più), in Basilicata si attesta a 349 e in Molise e Calabria a 334, mentre in Veneto sprofonda a 232 euro e in Lombardia a 253. Lo squilibrio diventa ancora più evidente se si confronta l’aiuto statale con le «risorse proprie » dei sindaci nei vari territori: al Nord-Ovest arriva un assegno di valore pari al 39% di quanto i comuni raggranellano con tributi e tariffe, al NordEst il rapporto è al 31% mentre a Sud il valore schizza al 70 per cento. Più equilibrata sul territorio è la distribuzione degli indennizzi per compensare gli enti locali dell’Ici abolita sull’abitazione principale, ma questa voce vale solo il 30% dei 13 miliardi di euro statali da trasformare in tasse locali nelle regioni a statuto ordinario. In soldoni, i comuni settentrionali devono «fiscalizzare» 258 euro a cittadino, mentre in quelli del Sud si arriva a 311 euro, il 20% in più. Ad aggravare lo squilibrio c’è però l’altro corno del problema, legato al fatto che queste somme più ricche andrebbero tratte da basi imponibili più povere. È lo stesso Ifel a proporre il confronto, analizzando le voci principali del fisco immobiliare che dovrebbe offrire le basi della futura autonomia municipale. I redditi da fabbricati, per esempio, valgono tra i 692 e i 732 euro nel Centro-Nord (il dato delle regioni centrali è portato in alto dai valori di Roma), e si fermano a 373 euro nel Mezzogiorno, e in territori come la Basilicata e la Calabria sprofonda intorno ai 250 euro a testa. Dinamica simile per i valori di base dell’Ici sulle abitazioni non esenti, che passa dai 14-15mila euro delle zone più ricche ai 10mila euro del Sud. La forbice fra i territori, soprattutto per quel che riguarda l’Irpef, può stringersi con una lotta ad ampio raggio contro l’evasione immobiliare, come quella promessa dalle misure in cantiere su cedolare secca ed emersione delle case fantasma. Il «nero», in particolare quello generato dagli affitti non dichiarati, si concentra soprattutto nel Mezzogiorno (dove raggiunge fino al 34% degli immobili in locazione, contro il 4% del Nord; si veda Il Sole 24 Ore del 19 luglio), ma la lotta all’evasione è una lunga guerra di posizione e non conosce bacchette magiche. Il rischio, insomma, è che la contraddizione fra basi imponibili e alte somme da «fiscalizzare» spinga in alto le aliquote, anche perché l’introduzione del federalismo si dovrà accompagnare con la restituzione ai sindaci del potere di intervenire sulla leva fiscale. L’esperienza insegna che il rischio è concreto. Tra 2004 e 2008 le entrate dei comuni sono aumentate dell’8%, ma il valore medio è trainato essenzialmente dal +17,6% fatto registrare a Sud di Roma, con i record intorno al 20% realizzati in Sardegna, Molise, Puglia e Calabria. Complice l’addio all’Ici prima casa, i risultati dei tributi sono negativi quasi ovunque, ma anche in questo caso il Sud fa eccezione perché l’imposta abolita pesava meno, e soprattutto perché lì la leva fiscale si è mossa di più. In Calabria, per esempio, nei quattro anni considerati i tributi si gonfiano del 19,6%, mentre nello stesso periodo la Liguria mostra una flessione del 16,9%. Dinamiche simili sono state vissute da canoni e tariffe (per i tecnici: le entrate extratributarie), che in quattro anni sono aumentate del 54,7% in Sardegna, del 30,3% in Calabria e del 29,1% in Puglia, mentre nello stesso periodo la media dei comuni settentrionali mostra un +13 per cento. Mentre a Nord il patto tagliava gli investimenti, insomma, al Sud faceva crescere tasse e tariffe. Il tutto è avvenuto prima del federalismo, che imporrà agli amministratori non in grado di contenere le spese di chiedere ai cittadini le risorse extra rispetto ai livelli standard.
Nei comuni del Sud tasse più alte del 20%
Verso il federalismo – La fiscalità dei municipi/In arrivo. Previsto prima della pausa estiva il decreto sulle entrate dei sindaci – Il trend. Negli ultimi anni il mezzogiorno ha già fatto impennare imposte e tariffe
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