La mobilità dei dipendenti pubblici rimane necessariamente condizionata al «nulla osta» dell’amministrazione di provenienza. Le modifiche apportate dalla riforma-Brunetta all’articolo 30 del dlgs 165/2001 non determinano affatto la conseguenza di eliminare la necessaria prestazione di consenso al trasferimento, da parte dell’ente di appartenenza. Non sono convincenti le argomentazioni contrarie mosse da parte di alcuni interpreti (si veda a questo proposito l’articolo apparso su ItaliaOggi del 18/3/2011) basate su una presunta e assolutamente non dimostrata volontà del legislatore di agevolare il passaggio dei dipendenti da un’amministrazione all’altra. Tali teorie si incentrano sull’articolo 12 delle preleggi, ai sensi del quale nell’applicare la legge bisogna attribuirle il senso fatto palese dal significato proprio delle parole. Ma, nel testo dell’articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001 non vi è traccia alcuna di un’espressa volontà del legislatore di eliminare il consenso. La norma dispone: «Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti mediante cessione del contratto di lavoro di dipendenti in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento. Le amministrazioni devono rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico. Il trasferimento è disposto previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato». Tanto è vero che le previsioni normative non contengono nessuna eliminazione della necessità del «nulla osta», che l’opposta tesi della sua eliminazione deve parafrasarla (dunque, ponendosi in contrasto con l’articolo 12 delle preleggi) e ritenere che il parere favorevole del dirigente riferito al personale che «è assegnato» riguardi il dipendente, estraneo ai ruoli dell’amministrazione, ma in essa operante in posizione di comando. Ma, della posizione dei dipendenti in comando o fuori ruolo parla il comma 2-bis dell’articolo 30 e non il comma 1. Il comma 2-bis ha lo scopo di subordinare il reclutamento di nuovo personale all’espletamento delle procedure di mobilità o all’immissione in ruolo del personale comandato. Diversamente dal comma 1, non regola la fattispecie. Guardando realmente alla lettera del comma 1, si nota che esso qualifica la mobilità come «cessione del contratto». Allora, stando così le cose, non può che trattarsi della fattispecie regolata dall’articolo 1406 del codice civile, considerata dalla dottrina dominante e maggioritaria come un negozio necessariamente trilaterale, nel quale il cedente può sostituire a sé un terzo, il cessionario, in un contratto a prestazioni corrispettive, purché l’altra parte, il ceduto, vi consenta. Nel caso dell’articolo 30, comma 1, cedente è il lavoratore, cessionario è l’amministrazione verso la quale il lavoratore intende trasferirsi, ceduto è l’amministrazione dalla quale il lavoratore intende andar via. La obbligatorietà del consenso del ceduto discende a chiarissime lettere non solo dalla disciplina generale dell’articolo 1406 del codice civile espressamente richiamata dall’articolo 30, comma 1, del dlgs 165 del 2001, ma anche dalla lettera stessa di tale ultima norma. Infatti, laddove essa prevede il parere favorevole del dirigente «cui il personale è o sarà assegnato», prevede la prestazione del consenso del dirigente presso il quale il personale «è» assegnato, cioè il consenso dell’amministrazione ceduta, da cui il lavoratore vuol andare via; nonché, ovviamente il parere del dirigente dell’amministrazione presso la quale il dipendente intende andare, il cessionario. Peraltro, il consenso obbligatorio e inderogabile del ceduto (l’amministrazione di provenienza) deve necessariamente essere espresso per iscritto, poiché il contratto di cessione deve assumere a sua volta la forma scritta, in base alla regola generale civilistica, secondo la quale i negozi modificativi debbono avere la medesima forma del negozio a cui si ricollegano: poiché i contratti di lavoro alle dipendenze della p.a. hanno obbligatoriamente forma scritta, anche il consenso deve rivestire tale forma. Non vi è, dunque, nessuno spazio interpretativo per poter configurare la mobilità come una sorta di diritto potestativo del dipendente di cambiare a proprio piacimento il datore di lavoro.
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