Chi ha pagato meno fino a oggi, pagherà di più domani. Rischia di essere questa la regola per misurare l’impatto del cambio di regime nell’imposta sugli immobili. Messo in questo modo può sembrare un principio di «equità», ma non è così per una ragione semplice: il pagamento più “leggero” fino a oggi è stato dettato dalle politiche fiscali del Comune (e “congelato” dal blocco delle aliquote deciso nel 2008), mentre i rincari sono portati dal nuovo sistema.
Per i sindaci torna l’Imu sull’abitazione principale, mentre quella pagata sugli altri immobili viene divisa a metà fra Stato e Comuni: se un Comune riceve dalla nuova Imu più di quanto ha ricavato fino a oggi dall’Ici, le risorse aggiuntive vengono assorbite dallo Stato, mentre per i Comuni che si “impoveriscono” interviene una compensazione che garantisce i livelli di finanziamento prodotti dall’Ici attuale.
Per i bilanci locali, in teoria, cambia poco, anche se l’intero sistema deve reggere alla prova sul campo delle stime elaborate a livello centrale. Per i cittadini cambia tutto. Per gli immobili diversi dalla prima casa (cioè 18 miliardi su 21,5, secondo i calcoli del Governo) il parametro chiave del nuovo meccanismo, infatti, è basato sull’aliquota base uguale per tutti, fissata al 7,6 per mille. A livello complessivo, il confronto è fondato sull’aliquota media dell’Ici ordinaria, intorno al 6,5 per mille, ma il panorama generale della finanza pubblica interessa poco ai proprietari che sono chiamati a fare i conti con i rincari: il dato più interessante, dal loro punto di vista, è offerto dall’effetto combinato dell’incremento di base imponibile (60 per cento per gli immobili abitativi) e della distanza fra vecchia e nuova aliquota.
Il debutto dell’Imu, insomma, si farà sentire ovunque, ma in maniera più decisa nelle città in cui l’aliquota Ici ordinaria è più bassa. La tabella pubblicata qui a fianco indica i rincari medi rispetto a oggi che sarebbero determinati dall’applicazione tout court delle nuove regole: da Ancona a Piacenza, passando per gli altri 75 capoluoghi che hanno raggiunto il tetto massimo del 7 per mille con l’Ici ordinaria degli ultimi anni, l’arrivo dell’Imu, accentuato dai moltiplicatori applicati alle rendite catastali, porterà un rincaro del 73,7 per cento. A Torino, Agrigento e negli altri capoluoghi che si attestano al 6 per mille con l’Ici ordinaria, l’arrivo dell’Imu con le modalità disegnate dalla manovra comporta un aumento del 102,7%, mentre a Milano, dove il conto dell’Ici ordinaria è stato fino a oggi limitato al 5 per mille, il segno più è seguito da una percentuale ancora più importante: 143,2 per cento. Aosta è poi al top, con un incremento del 204%: l’imposta si triplica.
Certo, la manovra offre ai sindaci anche la possibilità di abbassare il conto, limando l’aliquota fino al livello minimo del 4,6 per mille. Anche ammesso che qualche Comune decida di farlo, il conto sarà in ogni caso in perdita per i proprietari, perché l’aumento della base imponibile deciso a livello centrale si mangerà qualsiasi beneficio introdotto sul territorio: con l’aliquota minima del 4,6 per mille, infatti, si verserà quel che si dovrebbe versare oggi con un’Ici al 7,3 per mille, impossibile perché sopra i tetti massimi annuali.
L’ipotesi degli sconti locali, comunque, rischia di essere destinata a rimanere nella teoria. Il giro di giostra sull’imposta del mattone, infatti, aumenta gli spazi finanziari del bilancio centrale (12 miliardi in più, secondo la relazione tecnica alla manovra), ma riduce quelli dei bilanci locali (-1,45 miliardi di taglio al fondo di riequilibrio, a cui si aggiungono altre perdite se le stime di gettito centrali si riveleranno troppo ottimistische). In questo quadro, e con manovre cumulate da 4,5 miliardi sugli enti locali dettate dai due decreti estivi e dalla legge di stabilità, non è il caso di sperare in una particolare generosità dei Comuni nella determinazione di aliquote scontate.
A ostacolare questa strada, poi, è lo stesso meccanismo di ripartizione dell’imposta fra Stato e Comuni. La metà statale è calcolata sempre ad aliquota di base, senza contare eventuali detrazioni stabilite dai regolamenti locali. Il meccanismo serve a non far pagare allo Stato una quota del costo determinato dagli sconti decisi a livello locale, ma nei fatti mette un’ipoteca non da poco sulla realizzabilità stessa degli sconti: diminuendo l’aliquota, il Comune sarebbe costretto a versare allo Stato fino a oltre l’80% dell’imposta che continua ad accertare e raccogliere sul proprio territorio. Una prospettiva in grado di scoraggiare sconti e detrazioni, tanto più in un quadro in cui l’incertezza sui gettiti reali e le troppe variabili in gioco consigliano più di una cautela a chi fa i bilanci locali, il cui termine di presentazione sarà probabilmente rinviato al 31 marzo.
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