Il continuo contenzioso che sta recentemente emergendo, nelle diverse pubbliche amministrazioni, in materia di rispetto della normativa sul contratto a termine, sembra rilevare ancora una volta come un problema di carattere meramente finanziario, in termini di costi da risarcimento da sopportare, senza far emergere le evidenti responsabilità gestionali e il danno che viene recato in termini di visione distorta sul lavoro flessibile. Tutto ciò con evidenti effetti negativi sull’immagine e idea del lavoro flessibile e conseguenti riflessi sul mercato del lavoro privato. Il cattivo comportamento datoriale del settore pubblico, non essendo debitamente sanzionato, ha prodotto nel tempo un fenomeno di precarietà diffusa. Questo sta falsando, come è evidente anche da alcuni interventi sulla stampa, le analisi sull’intero mercato del lavoro e quindi contribuendo a sbagliare sulle soluzioni che possono aiutare a superare le criticità del mercato del lavoro privato. Il datore di lavoro pubblico ha applicato le disposizioni in materia di lavoro flessibile in maniera impropria e massiva, approfittando di due condizioni particolarmente vantaggiose: l’iniziale favore delle norme sui tetti di spesa nei confronti dei contratti di lavoro flessibile, e soprattutto, la norma contenuta nel Dlgs 29/93 (oggi Dlgs 165/2001) che vietava l’applicazione alle pubbliche amministrazioni della sanzione della trasformazione del rapporto in caso di violazione delle norme sui contratti a termine. Le amministrazioni pubbliche hanno trovato conveniente ricorrere al lavoro flessibile per diverse ragioni: la presenza del blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, l’eccessiva rigidità dei lavoratori a tempo indeterminato, nonché, aspetto poco evidenziato ma rilevante, la possibilità di assumere discrezionalmente i lavoratori con contratti flessibili, senza dover quindi attivare un concorso vero e proprio. Così, grazie alla mancanza della sanzione della trasformazione del rapporto di lavoro, mentre sul fronte privato venivano apportati diversi interventi di modifica al Dlgs 368/2001, con l’obiettivo di responsabilizzare il datore di lavoro privato, il datore di lavoro pubblico violava continuamente tutte le disposizioni in materia. Nella ricerca e nella sanità (ma non solo) si è assistito a borse di studio che camuffavano veri e propri lavori subordinati. In generale venivano stipulati contratti a tempo determinato di sette anni avallati persino dai contratti collettivi nazionali, chiaramente in violazione delle norme comunitarie sul contratto a termine; rinnovi periodici, sia per atti datoriali sia attraverso leggi nazionali e regionali. Oppure contratti di somministrazione che pur cambiando le agenzie per il lavoro hanno consentito di somministrare gli stessi lavoratori per quattro o cinque anni di seguito. Infine, contratti di collaborazione coordinata e continuativa con retribuzione mensile e vincolo di orario e sede nella prestazione lavorativa. Tutto questo è stato apertamente tollerato dalle norme e dai contratti collettivi, dagli organi di controllo, dagli ispettori delle pubbliche amministrazioni, dai vertici politici e dalle organizzazioni sindacali. Nessuno si è mai opposto a tali contratti di lavoro flessibile, né tanto meno alle proroghe degli stessi. La gravità maggiore sta nel fatto che una specificità e grave patologia riguardante prevalentemente il settore pubblico influenzi il dibattito sul lavoro flessibile, sull’occupazione e sul mercato del lavoro privato. Appare urgente riflettere allora con strumenti diversi. Pensiamo a rivedere le sanzioni nel settore pubblico e le responsabilità dirigenziali e pensiamo, anche se con un ritardo di otto anni, ad introdurre il decreto Biagi nelle pubbliche amministrazioni. Valutiamo se introdurre nel settore pubblico il contratto di apprendistato o quello di inserimento. Il tutto partendo da un’analisi sui fabbisogni di flessibilità del settore pubblico e sul ruolo che può avere il contratto di lavoro flessibile nel settore pubblico, del tutto diversa da quella che è stata alla base degli interventi nel mercato del lavoro privato. Affrontiamo, pertanto al netto della specificità del pubblico, il tema della flessibilità del mercato del lavoro e del contratto di lavoro, distinguendo tra flessibilità e precarietà. Partendo da un dato di chiarezza e cioè che quanto previsto dal decreto legislativo Biagi nulla ha a che fare con le nefandezze del settore pubblico, come quella di poter stipulare un contratto a termine di 7 anni e per di più rinnovabile.
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