La produttività nell’amministrazione pubblica è una finzione, un gioco che dura da quasi trent’anni, costosissimo, burocraticamente inestricabile, sostanzialmente inutile.
Tutti lo sanno, ma si continua a dare credito ai fattucchieri dell’aziendalismo, che da decenni si sono insinuati tra i consulenti del legislatore (e tra i consulenti e gli organismi indipendenti di valutazione di ciascuna PA), per instillare dottrine che nelle aziende private hanno un senso, mentre nel sistema pubblico assolutamente no.
Lo scrive chi è solo un “burocrate” bizantino e borbonico, insensibile al “miglioramento continuo” ed ai benefici dei piani della produttività?
No. È la Corte Costituzionale, che con la sentenza 27 giugno 2017, n. 153 ci fa fare, come spesso capita a Palazzo della Consulta, un bel bagno di realismo, a disdoro della narrazione trentennale di “risultati” e “performance”, tanto vana, quanto costosa.
La recente pronuncia della Corte Costituzionale
La sentenza ha rigettato la questione di legittimità costituzionale posta (doveroso dirlo: con tanta leggerezza) sulla mancata estensione alla Pubblica Amministrazione (segnatamente all’Agenzia delle Entrate, che secondo la dottrina di Vincenzo Visco, non si capisce perché, dovrebbe rappresentare l’avanguardia dell’aziendalismo nella PA, mentre si tratta di un servizio tipicamente ed esclusivamente pubblicistico) della normativa sulla detassazione dei premi di produttività.
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