Dall’attività del Governo devono discendere le indicazioni che costituiscono le premesse dirette a orientare la mentalità degli italiani perché esprimano collaborazione alla vita dello Stato.
In questi primi mesi del governo Monti, la politica tributaria è stata prevalentemente condizionata dalla politica economica e dall’equilibrio possibile dei conti pubblici. Ma subito si è cominciato a parlare di semplificazione, senza avere le idee chiare sulle cose da fare: se una qualche forma di “restituzione ai cittadini e alle imprese” di una parte del gettito, oppure di una mini-riforma, oppure di una delega che ridisegni il sistema fiscale. O, infine, di ritocchi con la finalità di attirare gli investimenti, specie di quelli stranieri.
Occorre peraltro una preliminare indicazione di metodo che indichi le forme giuridiche e organizzative, perché solo da esse si può capire quali possono essere gli sbocchi della cosiddetta semplificazione. La scelta è fra: continuare con il metodo seguito finora o guardare più in alto e cambiare.
Finora si è agito con una delega di fatto all’agenzia delle Entrate che si è mossa con l’occhio rivolto prevalentemente alla funzione di deterrenza delle sanzioni penali e con interventi rapidi e presumibilmente efficaci che hanno costituito una forma nuova e imprevista di accertamenti fiscali. Questi interventi, soprattutto a causa della loro forma, hanno scosso in qualche modo la gente, ma non mi sembrano idonei a cambiare la mentalità diffusa.
Se non si cambia metodo la semplificazione sarà fatta dagli stessi autori delle leggi da semplificare. Quanto alle cose da fare si guarderà soprattutto a strumenti come lo spesometro, gli studi di settore e ad altre consimili che hanno l’effetto della soluzione rapida e prammatica, con criteri che sganciano sempre più le scelte fiscali dal principio di legalità come contenimento della discrezionalità dell’amministrazione, superando il primato della dichiarazione che è l’atto cardine di un sistema fondato sulla collaborazione dei cittadini. Le cose si muoveranno col pragmatismo dell’agenzia delle Entrate che non può elaborare programmi di governo e risolvere i problemi della finanza locale con intese, sulla testa del Parlamento, con gli stessi enti locali.
In alternativa a questa linea, la strada che mi sembra più rispettosa della Costituzione è quella che affida concretamente e non apparentemente la politica tributaria al Governo e al Parlamento.
Se si guarda alla lezione di Vanoni e di Visentini, la guida dell’attività tributaria deve essere affidata nel Governo a chi, partendo da grandi principi, tende a varare leggi stabili che sono la premessa indispensabile per orientare il comportamento dei contribuenti, che diventa collaborazione perché si fida del sistema.
Ora il ministro delle Finanze è il capo del Governo (che ha tenuto precisarlo in una dichiarazione) ma, con tutta la sua bravura, egli non ha il tempo necessario per guidare in senso pieno la politica tributaria: con questi limiti il suo compito può essere solo quello di verificare la compatibilità del gettito con la politica economica di risanamento, lasciando la delega all’amministrazione di fare (e disfare), chiamando semplificazione ciò che rischia di diventare solo complicazione, senza regole stabili. L’uso del gettito derivante dalla lotta all’evasione per compensarlo con l’entità di altre imposte trasforma il sistema tributario in una fisarmonica che andrebbe registrata ogni anno.
L’amministrazione, invece, deve essere al servizio delle decisioni del governo sotto la guida di un ministro delle Finanze e di un sottosegretario salvando ciò che di positivo è stato per creare le premesse per una legislazione organica che diventi l’eredità da lasciare ai futuri governi. Un Governo che ragioni del fisco in termini di diritto è la condizione perché i contribuenti si fidino e collaborino.
Vanoni non credeva nella legge penale come mezzo di affidamento, ma nella persuasione indotta da premesse razionali. In via transitoria occorre ridurre la preferenza per le sanzioni penali, per le presunzioni che invertono l’onere della prova. Occorrono la sopportabilità delle aliquote, la cui insopportabilità è causa tecnica di evasione, il rispetto delle priorità, delle compatibilità e dell’affidamento. Un’impostazione di questo genere favorirebbe il ritorno allo studio di questa materia da parte dei giudici e da parte dei burocrati.
Il Governo risponde al Parlamento e se alla fine del suo mandato avrà lasciato ai governi successivi un modo di intendere il fisco come diritto si saranno create le premesse perché non si riparta da zero.
Il problema è di carattere generale e riguarda tutte le materie. Ma è la tematica tributaria che ha bisogno di quella buona fede che può nascere solo con regole chiare e tendenzialmente stabili. I progetti di legge debbono nascere nel governo con un grado di razionalità per meritare il voto del Parlamento e l’applicazione giusta da parte dei giudici e dell’amministrazione.
L’attuale situazione politica è una necessaria fase di assestamento alla fine della quale anche nella materia tributaria il quadro istituzionale dovrà essere definito e non frutto di improvvisazioni.
Occorre pertanto che nel Governo vi sia una guida che abbia chiari in mente principi, regole e tempi, una strategia insomma da indicare al Parlamento e ai futuri governi.
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