Coraggiose premesse poi un gran polverone d’interdizione e, infine, epilogo scialbo e deludente sui costi della politica. Nella manovra del governo le economie su tali costi, realizzabili in tempi brevi, insistono su capitoli di spesa secondari che non intaccano l’esorbitante esercito della politica. Inoltre, i risparmi possibili più sostanziosi o non sono stati considerati o sono stati rinviati alle calende greche, scaricati in modo aleatorio sul biennio 2013-14 (sulla prossima legislatura). Sotto l’etichetta, pressoché inviolabile, dei “costi della politica” sono accomunate categorie di spesa che spesso vengono intenzionalmente confuse per rendere “credibile” che la riduzione di spesa possibile nel dominio dei politici sarebbe effimera e non certo decisiva per la stabilizzazione finanziaria del Paese. Anche in questo caso, il governo, nonostante le intenzioni iniziali di Tremonti, ha deciso di non intervenire con tagli selettivi e significativi sulle spese ormai leggendarie della politica italiana, né ha ritenuto di applicare un taglio lineare (a cui era ricorso in precedenza) che, se del 20%, avrebbe prodotto in tempi brevi un risparmio prossimo ai 4 miliardi a fronte degli oltre 45 della manovra pluriennale. Ha, di fatto, ritenuto che per risollevare la finanza pubblica, la crescita e lo sviluppo del Paese, le élite politiche non dovessero contribuire direttamente, nonostante siano tra le cause principali dell’affanno italiano. In realtà, l’area pubblica statale e decentrata avrebbe bisogno non di tagli lineari, ma di una razionalizzazione, articolata in misure selettive, inscritte in una strategia di rigore e di crescita del Paese. Perciò quello che sarebbe servito è guardare dentro i costi della politica e distinguere. Innanzitutto, ci sono i costi diretti della classe politico-istituzionale (dalle alte cariche agli esecutivi e ai parlamentari/consiglieri a diversi livelli) e dei partiti. La proposta di Tremonti di parificare il trattamento economico dei parlamentari (e quant’altri nelle varie Agenzie) a quelli dei colleghi europei appare opportuna e significativa sul piano del risparmio, ma viene rinviata alla prossima legislatura, mentre il Paese avrebbe bisogno di quelle risorse prima, per cercare di eliminare il deficit pubblico, almeno, entro il 2013. Anche la riduzione del 10% dei rimborsi elettorali ai partiti politici segue la logica del rinvio (alla prossima legislatura) e della cautela estrema su questa materia controversa: è vero che tali rimborsi saranno proporzionati alla durata effettiva della legislatura e che il 10%, cumulato a tagli già previsti in precedenza, diventa circa un 30% in meno, ma è inoppugnabile che essi sono aumentati di oltre il 150% in dieci anni e che la riduzione prevista è ben poca cosa (circa 50 milioni di risparmio) ai fini della manovra. Al contrario, le disposizioni previste dalla manovra non toccano minimamente i costi complessivi di una classe politico-istituzionale cresciuta a dismisura, sul piano numerico nella seconda Repubblica, durante la quale il disegno europeista delle regioni è stato appesantito, a livello locale, da un’architettura sovrabbondante e barocca (regioni, province, comuni). Una forte riduzione della spesa complessiva per emolumenti “politici” andrebbe realizzata soprattutto con un taglio delle cariche elettive e di nomina: una prospettiva sulla quale le forze politiche inevitabilmente si incartano, perché la riduzione delle poltrone svilirebbe il faraonico “capitalismo politico” con i suoi riti di cooptazione e di riciclaggio del personale, le sue impellenti necessità di lottizzare, i suoi sprechi vistosi. Nonostante le promesse elettorali, il governo dunque non ne vuole sapere di eliminare le piccole province né i comuni con meno di 15mila abitanti. Eppure l’adozione di queste due misure, da sola, comporterebbe risparmi per oltre 4 miliardi di euro. Sparirebbero circa 50mila tra poltrone e strapuntini privilegiati. Già, il privilegio è il secondo capitolo dei costi del ceto politico-istituzionale. Tremonti, che rifugge giustamente la retorica contro la casta, ammette però che i politici da classe siano diventati un ceto che indulge nell’ostentazione di privilegi. Il ministro perciò fa calare la scure su aerei e auto blu (4,4 miliardi la spesa annua), ma non affronta la questione scottante della soppressione dei “vitalizi”, ad appannaggio di parlamentari e consiglieri, che di frequente sono cumulati, grazie al modello del politico di professione per tutta la vita, “dalla culla alla bara”. Il ceto agiato della politica è, inoltre, fonte di uno sperpero di denaro pubblico, più che percepito dai cittadini sia in termini di bassa produttività degli stessi politici sia per la farraginosità del funzionamento istituzionale. A questo riguardo, un’analisi recente della Uil ha messo in luce che sarebbero possibili importanti economie (altri 6,5miliardi). Il ventaglio di tutte queste opportunità di risparmio sui costi della politica, dimostrano che la riduzione della spesa non è una leggenda antipolitica, semmai, una richiesta “impolitica” dell’opinione pubblica a cui le élite politiche continuano a fare orecchie da mercante. Dalla manovra ci si attendeva una consistente e tempestiva decisione in quanto a emolumenti, numero e privilegi dei politici. Non solo per la quantità di risorse ottenibili, come visto tutt’altro che trascurabili, ma perché sarebbe stato un bell’esempio nel momento in cui si mettono le mani nelle tasche dei cittadini e delle imprese. Altrimenti la fiducia verso il ceto politico rimane ancorata alla battuta antipolitica di Totò: «A proposito di politica, ci sarebbe qualcosa da mangiare?».
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