«Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani». Una frase di grande effetto che è stata spesso utilizzata nel dibattito politico a sostegno delle ipotesi di riduzione nella pressione fiscale. Proposito encomiabile, ma che dimentica spesso come i cittadini di tasche ne abbiano sempre almeno due. Con una pagano le tasse, ma con l’altra ricevono i servizi offerti da parte del settore pubblico. E se quest’ultimo non può più attingere da una tasca, deve per forza, a meno di recuperi di efficienza, o smettere di riempire l’altra, riducendo i servizi pubblici, o farli pagare di più ai cittadini. Questo è quello che viene in mente scorrendo le tabelle riportate nelle pagine che seguono. Queste mostrano come i municipi italiani, strozzati dal blocco dei tributi locali da un lato e dalla riduzione dei trasferimenti erariali dall’altro, abbiano finito nel 2010 con il pigiare maggiormente il pedale dei prezzi pubblici laddove possibile, cioè per quei servizi a domanda individuale dove si può individuare un utente e dunque imporre una tariffa. Le entrate per i principali servizi tariffabili offerti dai comuni mostrano, infatti, quasi tutti incrementi nel corso del 2010 largamente superiori al tasso d’inflazione, in qualche caso anche a due cifre. La tendenza appare abbastanza uniforme nel Paese, sebbene con differenze rilevanti tra Nord e Sud per i diversi servizi, con, per esempio, incrementi più forti per le mense scolastiche nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord e viceversa incrementi meno marcati al Nord per i trasporti scolastici. Particolarmente impressionante è il dato relativo alla tassa sulla raccolta dei rifiuti urbani (+ 16%), anche se qui ha probabilmente influito anche la decisione della Consulta sulla Tia, che è stata equiparata a un tributo, e che dunque è probabilmente confluita nel bilancio. Ma in generale tutti i servizi, dai parcheggi alle mense ai trasporti agli impianti sportivi, mostrano incrementi nelle entrate nettamente superiori al tasso d’inflazione. Naturalmente questi sono puri dati contabili; non si sa, per esempio, quanto dell’incremento osservato sia dovuto a un recupero dell’evasione, a un incremento dei servizi offerti o a un incremento delle tariffe unitarie. Inoltre, sono dati Siope, cioè di cassa, ed è noto che questi aggregati contabili spesso presentano forti variazioni da un anno all’altro. Tuttavia, la dimensione dell’aumento è tale da far ritenere che in buona parte esso sia, in effetti, il risultato di un ruolo maggiore assunto dalle tariffe nel finanziamento dei servizi. Questo non è necessariamente un male. È noto che in un confronto internazionale gli enti locali italiani tendono a finanziarsi in misura maggiore con tributi rispetto alle tariffe. Ed è in genere un buon principio di efficienza, laddove possibile, imporre una tariffa invece di un tributo; fa pagare il servizio a chi ne fruisce, invece che alla collettività nel suo complesso, e rende i cittadini maggiormente consci del costo dell’offerta dei servizi pubblici, a sua volta introducendo stimoli verso l’efficientamento dell’offerta da parte del settore pubblico. E tuttavia non bisognerebbe dimenticare che la determinazione ottimale delle tariffe dovrebbe tener conto anche di aspetti redistributivi e di riduzione delle esternalità. Per esempio, tariffe inferiori al costo per i trasporti locali hanno l’effetto di disincentivare l’utilizzo dei mezzi privati, con vantaggi per l’ambiente e per la viabilità. Un’offerta sussidiata di asili nido ha l’effetto di aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro; e mense e trasporti scolastici sussidiati agevolano il raggiungimento di un obiettivo costituzionale, l’offerta di servizi scolastici a tutti, indipendentemente dal livello di reddito. Per questo, e perché molti servizi offerti dagli enti locali hanno caratteristiche d’indivisibilità, è importante che nel sistema di finanziamento degli enti locali un ruolo consistente sia lasciato anche ai tributi, con ampi spazi di autonomia nella determinazione delle aliquote e delle detrazioni. Su questo fronte, dopo l’eliminazione dell’Ici sul l’abitazione di residenza, i Comuni italiani sono rimasti abbastanza al palo. La riattivazione (parziale) dell’addizionale all’Irpef offrirà qualche respiro immediato, ma non è una soluzione, anche perché l’Irpef come imposta comunale soffre di parecchi svantaggi, è poco visibile per il contribuente e pesa sproporzionatamente sui redditi da lavoro dipendente. Anche la promessa Imu non risolverà il problema perché incide solo su un sottoinsieme del patrimonio immobiliare e ha una distribuzione molto diseguale sul territorio. Su questo, occorrerà dunque tornarci in futuro.
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