Un nuovo regime delle responsabilità, che chiarisca i doveri di controllo degli enti proprietari ma anche i doveri di amministratori e dipendenti delle partecipate.
Nel capitolo dedicato alle società pubbliche, con l’articolo 14 uscito dalla discussione in commissione Affari costituzionali del Senato, la riforma Madia si intreccia con la legge anti-corruzione, che ieri Palazzo Madama ha approvato in Aula. L’idea è quella di immettere nella «giungla» delle partecipate di cottarelliana memoria una robusta dose di trasparenza, cogliendo l’occasione per definire due temi sui quali i giudici discutono da tempo: quando una società pubblica può fallire, e quali sono i casi in cui gli amministratori possono essere chiamati a rispondere delle loro azioni davanti alla Corte dei conti.
La riforma dedica un’attenzione particolare alle circa 2.400 partecipate che chiudono i bilanci in rosso. Per i casi in cui i conti sono in difficoltà, la delega che nei prossimi giorni approderà all’Aula del Senato chiede al Governo di scrivere regole per fissare piani di rientro, con la possibilità di commissariamento nelle situazioni più gravi. L’idea di differenziare il peso dell’intervento in proporzione alle difficoltà dei conti di ogni società è importante, come suggeriscono gli stessi censimenti sulla salute finanziaria delle partecipate: nel 2012, anno preso in considerazione dall’ultima analisi della spending review, le 2.400 società in perdita (circa un quarto del totale delle partecipate di cui si conoscono i bilanci) hanno accumulato un rosso di 1,2 miliardi, ma sono 500 le aziende in cui il disavanzo ha caratterizzato tutto il triennio e, soprattutto, il 48% delle perdite si è concentrato in 20 società (Atac in testa).
Fin qui, però, si tratta solo di «perdite palesi», ma nei rapporti fra ente e società il rosso effettivo si può nascondere in tanti modi, per esempio con contratti di servizio troppo generosi per finanziare le inefficienze. Per affrontare questo problema, la delega affida al Governo il compito non facile di individuare «indicatori di efficienza», sulla base di «modelli generali che consentano il confronto» dei risultati.
L’obiettivo di fondo di questa parte di riforma, come dichiarato più volte dallo stesso ministro Marianna Madia, è comunque quello di ridurre il numero delle partecipate. Sul punto si era già esercitata senza successo la spending review di Monti, che aveva chiesto alle Pa di chiudere o dismettere le proprie società strumentali con una norma prima prorogata e poi abrogata, mentre l’obbligo posto dall’ultima manovra, che ha imposto a enti territoriali, università e autorità portuali di inviare un piano di razionalizzazione alla Corte dei conti, è scaduta l’altroieri con risultati alterni sul territorio: Roma, per esempio, ha votato con il bilancio una delibera che riordina il proprio panorama di partecipate, a Milano invece il piano è inciampato nel braccio di ferro fra giunta e consiglio sulle competenze. Fra gli ostacoli che hanno bloccato i precedenti tentativi di riduzione delle partecipate c’è quello dell’esigenza di ricollocazione del personale, e per questa ragione la riforma chiede di introdurre «strumenti anche contrattuali» per tutelare i livelli occupazionali nei processi di ristrutturazione e privatizzazione.
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