Che fine ha fatto il federalismo scolastico? Nelle sedi politiche non se ne parla da molti mesi e anche in precedenza lo si era fatto in modo discontinuo e farraginoso. L’opinione pubblica e lo stesso mondo della scuola non sanno a che punto sia la discussione. Addirittura, molti ignorano che esista una discussione sul federalismo nella scuola e che questo sia un capitolo della più ampia partita relativa al trasferimento di fondamentali funzioni legislative e di governo dal centro alla periferia. Un obbligo che nasce dieci anni fa con il nuovo Titolo V della Costituzione: l’articolo 117 attribuisce la potestà legislativa in materia d’istruzione alle Regioni, con lo Stato che mantiene soltanto la determinazione delle cornici entro le quali deve muoversi la legislazione scolastica regionale nonché quella dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che in ogni parte del Paese la scuola deve fornire affinché a tutti sia garantito il diritto allo studio e all’apprendimento. L’occasione per riparlarne poteva essere quella del decreto sulla fiscalità regionale in attuazione della legge Calderoli, approvato qualche giorno fa in commissione bicamerale. Nelle intenzioni il decreto dovrebbe definire, fra l’altro, i fabbisogni e i costi standard sulla cui base lo Stato fornirà a ciascuna Regione le risorse per garantire i Lep dell’istruzione: tanto il buon senso quanto la stessa legge 42/2009 suggerivano di determinare in primo luogo che cosa fossero questi Lep. Ciò che per la scuola – a differenza della sanità – non era stato ancora fatto. Invece, ancora una volta nulla o poco più. Solo un fugace accenno all’articolo 9, che rimanda a un nuovo decreto sine die la ricognizione dei Lep già esistenti in normativa (ma che di fatto non ci sono), in attesa della quale si rinvia a un’intesa da realizzarsi in sede di conferenza unificata Stato-Regioni (che negli ultimi cinque anni non è mai stata capace di raggiungerla). Oltre a un clamoroso ritardo di attuazione del dettato costituzionale, è un peccato, perché il federalismo scolastico sarebbe assai utile per affrontare alcuni mali del nostro sistema d’istruzione. In particolare, oltre a razionalizzare la spesa pubblica in modo più “fine” di una politica di tagli generalizzati dal centro, potrebbe servire a ridurre i profondi divari territoriali che oggi permangono nella qualità degli apprendimenti degli studenti. Responsabilizzando le Regioni in un percorso di convergenza verso obiettivi condivisi, la scom-messa sarebbe di riuscire là dove il governo centrale della scuola ha finora sempre fallito. Ovviamente, non si può sottovalutare il rischio che un federalismo mal governato lasci le cose come stanno o addirittura porti al risultato opposto, accentuando i divari fra Nord e Sud, con alcune delle Regioni più ricche che migliorano la qualità, tutto sommato già buona, delle loro scuole e le altre che continuano ad arrancare, perdendo ulteriore terreno. Proprio per questo nel suo “Rapporto sulla scuola in Italia 2010” la Fondazione Agnelli ha posto tre condizioni di realizzabilità del federalismo scolastico. La prima è che le Regioni abbiano realmente gli incentivi per riuscire: serve perciò un’effettiva coincidenza di centri di spesa e responsabilità gestionale e politica. Ciò nella scuola è oggettivamente ancora più difficile che nella sanità. Per esempio, poiché il fattore decisivo per la qualità dei risultati sono gli insegnanti e il loro costo rappresenta ovviamente la parte maggiore della spesa pubblica per l’istruzione, l’opzione federalista suggerisce che le Regioni estendano la propria responsabilità di programmazione anche alla gestione del personale scolastico. La seconda è che, come in altri Paesi, il finanziamento dei Lep della scuola attraverso la perequazione avvenga, soprattutto nei primi e più decisivi anni, secondo un principio di adeguatezza: chi ha più strada da fare, deve ricevere di più. Date le grandi differenze di partenza, garantire nella fase iniziale le stesse risorse a tutte le Regioni non porterebbe ad alcuna attenuazione dei divari. La terza condizione è che nella discussione sui Lep l’enfasi si sposti dagli input agli output, dagli ingredienti ai risultati. La storia della scuola italiana dimostra che l’equalizzazione delle risorse (numero di ore di insegnamento, metri quadri per studente eccetera), operata per decenni dal Governo centrale, non ha impedito il formarsi di divari territoriali di qualità degli apprendimenti. Se, perciò, si vuole che il federalismo aiuti a colmare le differenze e assicuri a tutti livelli di istruzione adeguati, allora le Regioni – scegliendo gli strumenti che ritengono più appropriati – devono impegnarsi a raggiungere obiettivi quantificabili (in primo luogo, livelli di apprendimento e dispersione scolastica) che lo Stato finanzia e verifica attraverso il sistema nazionale di valutazione, con la possibilità di sanzionare comportamenti inefficienti e inefficaci. È positivo che nel recente decreto sul fisco regionale sia comparso, grazie agli emendamenti dell’opposizione, un riferimento (la «convergenza agli obiettivi di servizio») che va in questo senso. Si tratta, tuttavia, di un segnale ancora troppo debole per pensare a una svolta, mentre non passa giorno senza che giungano sintomi di una crescente difficoltà di gestire totalmente dal centro le tante criticità della scuola italiana.
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