Cinque a uno. Finisce così la partita dei deputatisindaci costretti dalla Corte costituzionale a scegliere se mantenere lo scranno di Montecitorio o conservare la fascia tricolore da primo cittadino. Gli ultimi tre hanno formalizzato la decisione la scorsa settimana. In cinque hanno optato per il comune, forti anche di un’anzianità parlamentare che assicura loro il vitalizio e del fatto che il ritorno in municipio li mette al riparo dagli annunciati tagli agli stipendi da onorevole e li salva dal passaggio al contributivo che dal primo gennaio colpisce le pensioni pagate da Camera e Senato. Problema che, invece, non hanno dovuto affrontare i loro colleghi sindaci che siedono al Senato. A prescindere da Raffaele Stancanelli, che ha dovuto scegliere perché la decisione della Consulta si riferiva proprio al suo caso (e ha optato per la poltrona di sindaco a Catania), per Antonio Azzolini e Vincenzo Nespoli la questione si è risolta con un nulla di fatto. I due senatori pidiellini restano al loro posto perché la giunta delle elezioni ha ritenuto – diversamente da quanto deciso dal corrispondente organo di Montecitorio – che l’incompatibilità rilevata dalla Corte valga solo per il futuro e non possa applicarsi alle situazioni in essere. Dunque, se a Palazzo Madama si può essere anche sindaci di comuni con 20mila abitanti, lo stesso non può darsi a Montecitorio, che invece non ha fatto distinzioni tra il prima e il dopo e ha messo in pratica da subito – non senza discussioni – il veto della Consulta. Non solo. Ha deciso di valutare se l’incompatibilità valga anche per gli otto presidenti di provincia (erano nove, ma Ettore Pirovano ha scelto di restare a Bergamo). Situazioni che ancora non sono state risolte, perché – a differenza della linea seguita per i sindaci, per i quali l’incompatibilità è stata applicata in via automatica – per i capi delle province è stato invece stabilito di aprire un’istruttoria in contraddittorio con la partecipazione degli interessati, che possono così presentare alla giunta delle elezioni le loro posizioni. Audizioni che sono partite mercoledì scorso. Anche il Senato aveva preso in considerazione il fatto di esaminare l’eventuale incompatibilità dell’unico presidente di provincia che siede a Palazzo Madama, il pidiellino Cosimo Sibilia da Avellino. Visto, però, che già i sindaci sono stati “graziati”, la questione neppure si pone: Sibilia resta al suo posto. Neanche il fatto che l’articolo 13, comma 3, della manovra di Ferragosto abbia – seppure anche in questo caso per il futuro – sancito l’incompatibilità della posizione di parlamentare con quella di «qualsiasi altra carica elettiva di natura monocratica relativa ad organi di governo di enti pubblici territoriali» con più di 5mila abitanti è riuscita a convincere i senatori ad applicare da subito il divieto della Consulta. Ci si è concentrati sulla natura, giurisdizionale o meno, delle decisioni della giunta delle elezioni e sulla loro assimilabilità a sentenze passate in giudicato e, in quanto tali, non modificabili. Tesi che ha finito per prevalere e per salvare così il doppio incarico di Azzolini e Nespoli (e, di conseguenza, anche quello di Sibilia), posizioni che la giunta delle elezioni aveva già valutato in passato, prima del nuovo indirizzo segnato dalla Corte. A niente sono valse le raccomandazioni del presidente della giunta di Palazzo Madama, Marco Follini (Pd), che aveva sottolineato il rischio di una «ferita istituzionale» derivante dalla «contraddizione fra le posizioni delle due Camere» (Montecitorio ha deciso prima del Senato). Tant’è che Follini, al momento del voto, è uscito dall’aula. Alla fine il cavillo giuridico e l’insanabile desiderio di cumulare incarichi ha avuto la meglio sui motivi di opportunità.
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