Diremo dunque addio ai 100 mila certificati che, ogni volta che si ha a che fare con la pubblica amministrazione, bisogna «produrre», cioè presentare, ché a «produrli» nel senso di formarli e di rifornircene sono tantissimi uffici nonché le «Agenzie Certificati», che dovranno cambiare attività. Almeno uno di questi certificati, però, è «prodotto» nel senso non burocratico del termine, cioè fabbricato, stilato, sottoscritto ecc. da chi deve poi anche «produrlo» nell’altro senso, quello burocratico. Si tratta di un certificato ritenuto fino a oggi importantissimo: il certificato antimafia. Un certificato grottesco, la cui abolizione, da sola, rende il ministro Brunetta, che l’ha annunciata, benemerito della Patria, anche di quella (fantomatica) del diritto nonché della ragione e del buon senso «c’or dalla scienza (e dalle leggi) son banditi affatto».
Questo certificato antimafia una volta era rilasciato dalle prefetture e consisteva e consiste nell’attestazione che il soggetto «non si trova nella condizione per l’applicazione delle misure di cui alla legge 31 maggio 1965 n. 575», cioè le misure di prevenzione (c.d.) antimafia, personali e patrimoniali.
Senonché, poiché le prefetture non sapevano a quale santo votarsi per accertare quanto si chiedeva loro di attestare ed erano sopraffatte dalle richieste di tali certificati (necessari, per esempio, pure per comparire in dibattiti televisivi e ottenere il rimborso spese!!) qualcuno fece la bella pensata di stabilire che a fare così impegnativa asseverazione dovesse essere lo stesso interessato.
Qualcosa come chiedere all’oste se il vino è buono. O, ad andare proprio per il sottile, che non sa di aceto. Il tutto ha un sapore vagamente pirandelliano. Ma pochi sanno (ci permettiamo di dubitare che persino il benemerito ministro Brunetta lo sappia, non sapendo, quindi, quanto sia benemerito) che cosa esattamente significhi quel «non versare nella condizione per l’applicazione delle misure di cui alla legge 31 maggio 1965 ecc.».
Questa legge, come recita l’art. 1, «si applica agli indiziati di appartenenza ad associazione di tipo mafioso ecc.».
Ora, a parte ogni considerazione circa l’applicazione di sanzioni così gravi, che vanno da limitazioni della libertà personale alla confisca dei beni in base a meri indizi, per ciò che specificamente riguarda questa esilarante autocertificazione, c’è da notare che chi la fa (e l’ha fatta, cioè migliaia e migliaia di italiani e anche stranieri) deve attestare un fatto che non è nelle sue possibilità conoscere. Se infatti una persona può sapere se è o non è mafioso (fino a un certo punto: Sciascia affermava che il vero mafioso non sa di esserlo), se può attestare, affermare, negare qualcosa che riguarda ciò che egli è o fa, cosa ben diversa deve dirsi per ciò che riguarda quel che gli altri ritengono e fanno relativamente alla sua persona.
«Essere indiziato», infatti dipende non da chi è o non è tale, ma da ciò che altri ritengono, fanno, considerano riguardo alla sua persona. Uno può essere indiziato (cioè «raggiunto» da indizi, che consentono ad altri – gli inquirenti – di ricollegare la sua persona con il fatto e la situazione considerata) senza neppure sospettarlo. Anche un mafioso autentico, del resto, che ben sappia di esserlo, può ignorare di essere «indiziato», di essere sospettato, di «versare», quindi, «nella condizione per l’applicazione delle misure di prevenzione di cui alla legge del 1965 che, ripetiamo, si applicano non «ai mafiosi», ma agli «indiziati» di esserlo, in quanto «indiziati».
La storia del «certificato antimafia» non è certo quella che attinge le più gravi e pericolose incongruenze della legislazione speciale varate per questa «emergenza».
Ma, specie in considerazione del gran numero di cittadini che hanno avuto occasione di averci a che fare nonché dell’aspetto grottesco e quasi umoristico della questione, e del fatto che essa può essere affrontata, speriamo, senza attrarre accuse di voler «abbassare la guardia» nei confronti della mafia, con conseguente, pericolo di incriminazione per «concorso esterno», possiamo almeno considerarla come campo per una esercitazione del raziocinio in una materia in cui sembra impossibile fare ad esso riferimento.
Auguri, dunque, ministro Brunetta e grazie, anche se, magari, non ha sospettato quanto ragionevole e necessaria per la dignità del diritto fosse questa sua iniziativa.
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