I termini di durata dei procedimenti disciplinari

La Riforma Madia, in relazione al tema del procedimento disciplinare, ha ottenuto il risultato di non sapere come qualificare i termini: perentori, ordinatori o acceleratori?

15 Settembre 2017
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di LUIGI OLIVERI

Il procedimento disciplinare deve garantire il contraddittorio, consentendo all’incolpato di svolgere le proprie difese con modalità e termini precisi e con la consapevolezza che il datore di lavoro debba a sua volta concludere il procedimento con un provvedimento espresso, entro una scadenza precisa.
Essendo il tutto ispirato alla garanzia dell’accusato, verrebbe spontaneo pensare che si tratti di termini chiari e perentori.
Tuttavia, le due riforme Madia al procedimento disciplinare (il d.lgs. 116/2016 sui “furbetti del cartellino e il d.lgs. 75/2017che riforma complessivamente il d.lgs. 165/2001) hanno ottenuto il risultato di non sapere come qualificare i termini: perentori, ordinatori, acceleratori o canzonatori?
Guardiamo la regola generale sui termini per il procedimento disciplinare “accelerato” dovuto alla circostanza di aver colto in flagranza il dipendente infedele che attesta falsamente la propria presenza in servizio (e per gli altri casi di flagranza cui il d.lgs. 75/2017 ha esteso la procedura “sprint”).
Ai sensi dell’articolo 55-quater, comma 3-ter, del d.lgs. 165/2001, questo tipo di procedimento deve essere concluso “entro trenta giorni dalla ricezione, da parte del dipendente, della contestazione dell’addebito”. Deve? Non proprio. Subito dopo, infatti, il medesimo comma 3-ter aggiunge: “La violazione dei suddetti termini, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e non sia superato il termine per la conclusione del procedimento di cui all’articolo 55-bis, comma 4”.

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