Nei bilanci dei Comuni ogni anno vengono iscritti («accertati») 20,7 miliardi di euro di tributi, 1,4 miliardi di multe e 1,8 miliardi di tariffe per altri servizi, dallo scuolabus alle mense fino all’assistenza domiciliare nei confronti di chi ha un reddito per pagarsela. Totale: 23,9 miliardi. Quando si guarda nelle casse, però, si scopre che 8 miliardi circa (cioè un terzo del totale) non arrivano nell’anno in cui sono stati chiesti, sotto forma di «riscossioni di competenza», ma entrano nella gestione dei «residui» e vengono ricevuti dal Comune, quando ci riesce, negli anni successivi; in molti casi ricorrendo alla «riscossione coattiva», sotto forma di ingiunzione o iscrizione a ruolo. La serie iniziale dei numeri serve a far capire il tasso di preoccupazione con cui i sindaci guardano la mini-riforma della riscossione locale, scritta in uno degli emendamenti dei relatori al decreto sviluppo su cui il Parlamento si pronuncerà domani, dopo aver ottenuto la scorsa settimana un primo via libera dal Governo. L’emendamento, prima di tutto, spinge anche nel campo del Fisco locale le regole pensate per ammorbidire la riscossione nazionale, a partire dallo stop alle ganasce quando il debito del contribuente non raggiunge i 2mila euro. Quando il creditore è il Comune, però, questa cifra si raggiunge raramente, perché per esempio anche in una città cara come Roma l’Ici di un appartamento da 70-80 metri quadrati impiega almeno 4 anni per superare questa soglia, e anche a Napoli dove la Tarsu è ai massimi causa emergenza una famiglia media non va oltre i 480 euro all’anno: per totalizzare 2mila euro di multe, poi, occorre fare strame del Codice della strada decine di volte. Con il sostanziale addio alle ganasce, i sindaci avrebbero solo la possibilità di ricorrere al pignoramento presso terzi (complicato, e inattivabile nei confronti dei lavoratori autonomi), oppure agli «inviti», che secondo le nuove regole potranno ripetersi solo a sei mesi di distanza dal precedente. Uno strumento, questo, non troppo persuasivo, soprattutto in un quadro in cui la riscossione «spontanea» e puntuale non appare troppo in voga. La media, come accennato, parla di una capacità di riscossione (intesa, sulla scorta dell’Istat, come rapporto fra accertamenti e riscossioni di competenza) intorno al 66% per tutta la “partita”. Ma questo numero nasconde al proprio interno situazioni molto diverse fra loro. A guardare le sole multe, Reggio Calabria e Salerno, nel 2009 (ultimo certificato consuntivo disponibile), la riscossione puntuale ha riguardato meno del 20%, e dati come quello di Firenze mostrano che il problema non è concentrato esclusivamente nei capoluoghi del Mezzogiorno. In un panorama come questo, è lecito prevedere che il tramonto dello strumento classico della riscossione coattiva locale, dopo la drastica limitazione posta lo scorso anno alle ipoteche (che non possono mai scattare sotto gli 8mila euro), riduca ulteriormente il grado di puntualità dei pagamenti. La riforma su cui il Parlamento deciderà domani pone però anche un altro problema ai sindaci. Chi sarà a effettuare la riscossione coattiva per conto dei sindaci, la maggioranza, che fino a oggi si sono rivolti a Equitalia? L’e-mendamento, infatti, prevede fra le altre cose che dal 1° gennaio prossimo l’agente nazionale della riscossione lasci il campo della fiscalità locale, cessando le attività di accertamento, riscossione e liquidazione dei tributi di sindaci e presidenti di provincia. In alternativa, i Comuni potranno riportare all’interno l’attività, oppure affidarla con gara a società «interamente pubbliche». A parte l’assenza di una disciplina transitoria in grado di chiarire il destino dei ruoli già emessi ma non ancora incassati, entrambe le prospettive non sono semplici. La prima si scontra con l’assenza di professionalità in molti Comuni, che tra l’altro non possono derogare ai vincoli rigidi del turn over, la seconda richiederebbe di organizzare immediatamente una gara: e trovare chi sia in grado di parteciparvi.
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