L’Italia ha fatto il compito. Le proteste di chi deve subire i maggiori tagli, la valanga di emendamenti, la presentazione di un maxiemendamento governativo sul quale si pone la fiducia sono tutti momenti di un copione ormai collaudato; con il prossimo voto delle Camere, lo studente-Italia si avvia a rivedere per l’ultima volta il suo elaborato. Un elaborato molto sofferto, quasi certamente senza fare correzioni, e quindi a consegnarlo al Professor Europa. Saremo promossi? L’Italia assomiglia a quegli studenti apparentemente svogliati che poi si rivelano capaci di recuperi eccezionali – è il caso della grande manovra del 1993, che aprì la strada all’adesione all’euro, e di molte manovre successive – studiando moltissimo nei giorni prima dell’esame e strappando la sufficienza. E potrebbe essere così anche questa volta. L’abbozzo generale originario non è stato stravolto, l’entità delle cifre concordate in sede europea non è stata ritoccata all’ingiù anche grazie a ripetute minacce di dimissioni del ministro dell’Economia. Ad aiutare l’Italia svogliata in questa sua «rimonta» c’è la presenza di un settore sommerso dell’economia che è pari, secondo le recentissime stime dell’Istat, a circa un sesto del prodotto interno ufficialmente rilevato; e siccome le dimensioni relative del settore sommerso italiano sono superiori alla media europea, recuperiamo qualcosa nei confronti internazionali: la pressione fiscale effettiva e il deficit pubblico effettivo sono sensibilmente più bassi di quelli ufficiali. Rimangono però tre dubbi di fondo. Il primo dubbio è che il compito che ci è stato assegnato dall’Unione europea si sarebbe potuto svolgere anche in qualche altro modo. Forse sarebbe stato ragionevole lasciare un po’ più di respiro (non molto) agli enti locali e far pagare qualcosa di più ai contribuenti, ossia mettere la mano direttamente nelle tasche degli italiani, applicando qualche (molto modesto) ritocco di aliquote e non torturare così duramente i bilanci di Comuni, Province e Regioni. Una simile alternativa era però bloccata da una pregiudiziale politica: l’attuale governo aveva fatto la promessa elettorale di non richiedere ai cittadini-elettori sacrifici che toccassero direttamente le loro tasche e di tale promessa non rimane che prendere atto. Si è quindi scelto di dare uno spazio molto grande ai tagli alle spese degli enti locali e di escludere qualsiasi aumento delle imposte. Potrebbe darsi, ed è questo il secondo dubbio, che simili tagli si rivelino assai più dolorosi, o comunque assai più percepibili dalla collettività di un aumento dell’imposizione fiscale anche per l’im-possibilità delle amministrazioni di riorganizzare in fretta la loro attività. Se veramente i tagli previsti dalla manovra si dovessero tradurre, come è stato autorevolmente prospettato dal presidente della Regione Lombardia, in una riduzione di servizi essenziali, a esempio del numero dei treni per i pendolari, l’impopo-larità potrebbe rivelarsi assai elevata e il desiderio di ingraziarsi i cittadini salvandoli ad ogni aumento fiscale potrebbe trasformarsi in un boomerang elettorale. Il terzo dubbio, però, sovrasta largamente gli altri due: questo compito, imposto alla grande maggioranza dei Paesi della zona euro, era proprio necessario? Non c’è uno zelo tedesco tutto particolare nel cercare di avere i conti in ordine perfetto, con il rapporto deficit/Pil che deve incondizionatamente tendere al «mistico» valore del tre per cento? Perché gli Stati Uniti non hanno grande fretta di ridurre un deficit a due cifre mentre gli europei sono in affanno con un deficit che è la metà di quello americano? La risposta va cercata al di fuori del campo economico ed è molto semplice: gli Stati Uniti hanno un governo mentre l’Unione Europea ha soltanto una Commissione di natura prevalentemente burocratica, gli Stati Uniti hanno un sistema fiscale centrale che copre tutto il Paese e si integra con i sistemi fiscali locali mentre nell’Unione europea i singoli Paesi sono ancora tutti fiscalmente sovrani. La manovra complessiva dei Paesi della zona euro rappresenta così il prezzo per la mancanza di volontà dell’Europa nel procedere più speditamente nella costruzione di un’Europa politica, il che significa aver preferito rinviare, anno dopo anno, la messa a punto di un meccanismo che portasse via sovranità e potere ai singoli governi nazionali per conferirli a un governo centrale. Un’Europa con una rappresentatività politica adeguata disporrebbe anche di una moneta maggiormente accettata nel mondo. E i conti pubblici della Grecia o del Portogallo non farebbero una paura maggiore per la salute dell’euro di quanto gli ugualmente disastrosi conti pubblici dell’Illinois e della California incidano sulla salute del dollaro. La rinuncia dell’Europa a perseguire un ruolo politico si trasforma in un costo ben superiore ai 400-500 euro in due anni, mediamente richiesti dai governi dei Paesi della zona euro ai loro cittadini, un sacrificio doppio perché comunque rappresenta un freno apprezzabile alla lentissima risalita della produzione. Anche se il compito è finito e saremo promossi, non c’è da stare allegri: senza un’Europa più integrata, di compiti simili se ne dovranno fare molti altri ancora, senza certezza di promozione.
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