La riscossione di tasse e tributi è buona o cattiva? È uno strumento essenziale della lotta all’evasione, anche a costo di una totale inclemenza verso i contribuenti? È possibile trovare un equilibrio tra l’interesse collettivo a che tutti paghino le tasse e il sacrosanto diritto dei cittadini (e delle imprese) di non subire prevaricazioni? A queste domande, Governo e maggioranza non sembrano aver individuato, almeno per ora, una risposta chiara. La riforma della riscossione – che domani dovrebbe ottenere il primo via libera della Camera con il decreto legge sullo Sviluppo – da un lato sembra attenuare alcune storture che hanno in questi anni caratterizzato l’attività degli esattori. Dall’altro lato, però, le correzioni in arrivo sembrano destinate a lasciare l’amaro in bocca alle imprese. E ai sindaci. Per le prime, nessuna apertura è in arrivo sulla richiesta di allungare da 72 a 120 mesi il periodo di rateazione concesso ai soggetti in difficoltà. Nulla di fatto, probabilmente, neppure sulla riduzione degli aggi di riscossione. Senza dire che, la più rilevante modifica che sarà accolta dal Parlamento – l’aumento da 120 a 180 giorni del termine di sospensione sugli avvisi di accertamento esecutivi, in caso di impugnazione da parte del contribuente – è ritenuta ampiamente insufficiente per scongiurare danni a molte imprese. In questo scenario, anche la norma che riporta dalla metà a un terzo la misura dell’iscrizione a ruolo provvisoria – norma sicuramente positiva – rischia di essere percepita solo come un contentino concesso per compensare gli altri rifiuti. Paradossalmente, però, la stessa maggioranza di governo, nel corso degli stessi lavori per la conversione in legge del decreto Sviluppo, ha messo invece da parte ogni intransigenza quando ha affrontato la questione del fisco locale. Su Ici, Tarsu e multe, a risuonare è stata la parola d’ordine del “liberi tutti”: sostanziale addio alle ganasce, da sostituire con cortesi inviti (ogni sei mesi) a regolarizzare la propria posizione, frettolosa ritirata di Equitalia, che effettua la riscossione coattiva per 4.600 enti e che da gennaio abbandonerà le imposte locali, senza chiarire che cosa accadrà nella fase di passaggio. Sull’onda dell’entusiasmo, gli emendamenti si preoccupano anche di chiudere ai sindaci l’accesso diretto a una serie di informazioni contenute nelle banche dati fiscali. Il sospetto, tra gli amministratori locali, è quello del solito “doppiopesismo” di uno Stato inflessibile quando si tratta di raccogliere le proprie entrate, che diventa generoso se le risorse sono di altri. In realtà le cronache parlamentari di questi giorni sembrano dare alla vicenda un senso diverso, ispirato dalla consueta fretta degli emendamenti che non riescono a tenere conto delle realtà su cui incidono. La prova del nove è nella soglia dei 2mila euro che blocca le ganasce. Nei tributi erariali può essere letta come segno di disponibilità verso i contribuenti meno “infedeli”, ma quando la stessa regola viene estesa ai tributi locali cambia di segno e si trasforma in un colpo ai bilanci locali. Per capire il problema sarebbe stato sufficiente raccogliere qualche informazione, e scoprire che l’ampia maggioranza dei debiti nei confronti dei Comuni non raggiunge i 2mila euro. Il fisco, si sa, è materia delicata, e soprattutto alla vigilia di una (promessa) riforma complessiva richiede un po’ di studio e attenzione. L’esperienza dimostra che anche i “segnali” dati attraverso le norme cambiano l’atteggiamento del contribuente e si traducono in variazioni di gettito. A chi devono credere gli italiani? All’amministrazione che manda migliaia e migliaia di lettere chiedendo come mai chi ha acquistato una casa ha speso nel 2009 più di quello che ha dichiarato, a quella inflessibile che continua a far pagare ai contribuenti inefficienze di cui non hanno colpa, oppure a quella “distratta” che abbandona di colpo i tributi locali (valgono 20 miliardi all’anno solo quelli dei Comuni) senza costruire un’alternativa?
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