Una situazione in qualche modo risaputa, alla quale i dati tolgono, però, ogni residuo dubbio. Ma i numeri spingono soprattutto a un’altra valutazione: le donne che partecipano e vincono i concorsi della pubblica amministrazione non sono poche. Si prenda il caso della magistratura, dove all’ultima selezione le vincitrici hanno doppiato gli uomini: 217 contro 108. Tant’è che nelle toghe il divario di genere è ridotto: 4.710 uomini contro 4.012 donne.
La situazione, però, cambia radicalmente quanto più si sale nella scala gerarchica: le posizioni semidirettive e direttive – a cui non si accede per concorso o per selezione interna, ma per cooptazione, nomina o procedura elettiva – sono appannaggio dei maschi. Un caso eclatante è quello delle agenzie (Entrate, Demanio, Dogane, Territorio, Monopoli), dove fra i dirigenti la quota femminile raggiunge al massimo il 21% (agenzia delle Entrate), ma il direttore generale è sempre – tranne che all’agenzia del Territorio – un uomo. Ancora più desolante la situazione dei dodici enti di ricerca vigilati dal ministero dell’Istruzione: nessun direttore generale donna; solo all’Istituto nazionale di alta matematica c’è una vicepresidente.
Non si può, allora, non giungere alla conclusione che nel meccanismo di scelta delle posizioni di vertice della pubblica amministrazione si annidi «una discriminazione, fosse anche implicita, a sfavore della componente femminile». Sono i risultati a cui arriva lo studio sulle carriere pubbliche messo a punto da Rete Armida (Alte professionalità femminili nella pubblica amministrazione) e che verrà presentato mercoledì nel corso del convegno romano su “Conciliazione vita-lavoro e valorizzazione delle competenze” (ore 9, Sala polifunzionale della presidenza del Consiglio, via di Santa Maria 37).
«Vorremmo dimostrare – sottolinea Monica Parrella, segretario generale dell’Agdp (Associazione classi dirigenti pubbliche e coordinatrice della Reta Armida – come sia rilevante nell’attuale situazione di crisi finanziaria la questione di genere. Specialmente in Italia, dove il tasso di occupazione femminile è il peggiore dell’Europa a 27 (dopo di noi solo Malta e Grecia) ed è di oltre il 30% inferiore al tasso di occupazione maschile. Se è vero che per uscire dalla crisi la variabile cruciale è rappresentata da un tasso di crescita dell’economia più celere, ebbene non cresceremo mai abbastanza finché l’Italia non saprà mettere a frutto quel vero spreco di talenti costituito da milioni di italiane che restano fuori dal mercato del lavoro».
Altro caso esemplificativo è quello dell’università, dove più si procede nei livelli di carriera meno sono le donne: così, se tra i ricercatori si registra quasi una parità di genere (55% uomini e 45% donne), fra i professori associati il divario cresce (66% contro 34%), per innalzarsi fra gli ordinari (80% contro 20%) e raggiungere l’apice nelle nomine di rettore, dove la componente femminile rappresenta appena il 5 per cento.
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