Diecimila capitoli di spesa ai raggi X. Tanti sono i rivoli della spesa pubblica che verranno messi al setaccio dalla spending review 3.0 (dopo quelle di Mario Monti e Carlo Cottarelli) del governo Renzi intenzionato a verificare «utilità ed efficienza» di ciascuna voce. L’obiettivo è recuperare 12 miliardi di euro, ma l’esecutivo, nel Documento di economia e finanza approvato venerdì in consiglio dei ministri, preferisce non parlare espressamente di cifre.
L’obiettivo è ricavare dalla revisione della spesa e delle tax expenditures 0,6 punti percentuali di pil dal 2016 in avanti. Quindi circa 12 miliardi di risparmi all’anno. Da realizzare come? In cima alla lista ci sono i soliti noti. In primis, gli enti locali che per quanto abbiano ricevuto da Matteo Renzi l’assicurazione di non dover subire ulteriori tagli rispetto a quelli già varati dalla legge di stabilità (si veda ItaliaOggi del 10/4/2015) non possono sentirsi del tutto al sicuro, visto che generano due terzi della spesa corrente.
Tutto dipenderà da come sapranno rendere virtuosa la propria spesa applicando i costi e i fabbisogni standard, ossia i livelli di spesa efficiente, capisaldi del federalismo fiscale e finora rimasti del tutto inapplicati. Un primo assaggio di come i livelli di costo «giusto» possano incidere sulle risorse degli enti si avrà nel 2015, visto che la legge di stabilità prevede che una quota del Fondo di solidarietà (pari al 20%) venga distribuita ai comuni sulla base dei fabbisogni standard e della capacità fiscale, ossia il livello di efficienza nel riscuotere le tasse locali.
Come in ogni spending review che si rispetti, anche quella del nuovo commissario Yoram Gutgeld farà rotta sulla razionalizzazione delle partecipate. Cottarelli voleva portarle da 8.000 a 1.000, Renzi resta sul vago, limitandosi nel Def ad attenzionare due settori particolarmente bisognosi di interventi di disboscamento: il trasporto pubblico locale e la raccolta dei rifiuti «che soffrono di gravi e crescenti criticità di servizio e di costo».
Anche la delega p.a. dovrà generare risparmi, ma a condizione che si arrivi al varo definitivo entro luglio, come previsto nel Def. Un’impresa ardua, visto che il ddl Madia è all’esame del senato da agosto e l’ok dell’aula, previsto per questa settimana, potrebbe slittare alla prossima dopo i veti della commissione bilancio sulle coperture.
A quel punto, per rispettare la tabella di marcia stilata dal governo nel Def, la camera dovrebbe concludere i lavori prima dell’estate.
Dalla Funzione pubblica si affannano a ripetere che alla lentezza dei lavori parlamentari farà da contraltare la velocità con cui il governo predisporrà i decreti attuativi, già in avanzata fase di predisposizione. Il Documento di economia e finanza ne promette l’approvazione entro dicembre, ma non si capisce se questa dead line si riferisca all’intero processo attuativo o solo a una parte dei decreti.
In ogni caso, dal ddl Madia si attendono risparmi in termini di riorganizzazione delle strutture periferiche dello stato (riduzione delle camere di commercio e delle prefetture) e di razionalizzazione degli uffici. Viene rilanciata l’idea prevista nel decreto Irpef (dl 66/2014) di concentrare tutti gli uffici statali presenti in un comune in un singolo immobile, creando così una sorta di «federal building» che faccia risparmiare sui costi logistici e di manutenzione.
Dalla riforma della p.a., il Def si attende un impatto economico ambizioso: 0,4% del Pil dal 2020 e 1,2% nel lungo periodo.
Completano il quadro degli interventi, la razionalizzazione delle stazioni appaltanti e delle centrali d’acquisto (anche se il decreto milleproroghe ha pensato bene, su richiesta degli enti locali, di far slittare dal 1° luglio al 1° settembre l’obbligo per i comuni non capoluogo di provincia di avvalersi delle unioni o di appositi accordi consortili o, ancora, delle convenzioni Consip per le forniture di beni e servizi nonché per le gare concernenti i lavori) e il taglio degli incentivi alle imprese e delle agevolazioni fiscali. Su entrambi, ai tempi del governo Monti, si era concentrata l’attenzione della commissione presieduta da Francesco Giavazzi che aveva stimato in 10 miliardi di euro la quota di contributi subito recuperabili dallo stato. Ma poi il report era stato riposto nel cassetto e lì l’hanno lasciato i successivi governi. La ricognizione degli incentivi promessa da Renzi nel Def potrebbe ripartire proprio da lì.
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