«Siamo a buon punto. Con l’industrial compact si aggiunge un altro tassello al mosaico del rafforzamento dell’anima industriale europea».
Il vicepresidente della Commissione Europea, nonché responsabile per l’industria e l’imprenditoria, Antonio Tajani inquadra l’industrial compact nel percorso che, con graduale inesorabilità, ha portato negli ultimi quindici anni all’abbandono dell’idea che l’Europa non potesse che avere un destino all’insegna del terziario e all’affermarsi della consapevolezza che il suo progetto – identitario, prima che economico – non potrà che essere appunto industriale.
Dunque, è a buon punto la battaglia culturale a favore dell’anima manifatturiera dell’Europa?
Di più. Direi che è stata vinta. Non era scontato. Non dimentichiamo che, non più di una quindicina di anni fa, ancora si ragionava di una Europa post-industriale, mentre oggi tutti pensano alla rinascita industriale dell’Europa. L’obiettivo di portare il valore aggiunto industriale comunitario di nuovo al 20% del Pil entro il 2020 non è una mera dichiarazione di intenti. È il simbolo di un lavoro profondo e di lungo periodo che sta dando i suoi risultati. Per l’industria, e per le politiche corali di sostegno allo sviluppo. Non a caso, anche grazie all’impegno italiano, si delinea sempre di più la fisionomia della politica industriale, che è cosa complementare ma diversa – non in un rapporto di dipendenza, ma di autonomia – dalla politica energetica e dalla politica del cambiamento climatico.
Da questo punto di vista, le presidenze del Consiglio Europeo di quest’anno appaiono favorevoli.
È così. La presidenza greca in questo primo semestre sta avendo una impostazione favorevole. E, naturalmente, anche la presidenza italiana avrà la medesima intonazione. Certo, dal punto di vista dei grandi meccanismi di governance europea, sarebbe importante che la Bce si concentrasse non solo sul controllo dell’inflazione, ma anche sulla dinamica della creazione dei posti di lavoro. Oggi lo sviluppo e il lavoro sono cardini essenziali. Basta vedere che cosa ha fatto Obama negli Stati Uniti, chiamando Janet Yellen alla testa della Federal Reserve. Inoltre, non possiamo esimerci dal pensare che, a questo punto, serve un nuovo equilibrio monetario: l’euro troppo forte costituisce un peso per lo sviluppo del nostro sistema industriale. Unione Europea vuol dire opportunità e policy, ma anche obblighi e rispetto degli standard.
È così. Per esempio, con la direttiva sui ritardi dei pagamenti l’Italia non si è allineata ai tempi dettati dall’Europa e rispettati dagli altri Paesi Ue. Per questo invieremo all’inizio di febbraio al Governo italiano la prima lettera di messa in mora, sottolineando le violazioni. Che sono soprattutto tempistiche di pagamento non applicate e debito pregresso ancora non liquidato.
Al di là del tema della politica industriale, esiste una capacità di rappresentanza dell’Unione europea per l’industria europea, nella gestione delle crisi e nella definizione delle opportunità?
Sì, c’è sempre di più. Sono due degli aspetti che stanno assumendo un contorno progressivamente più vivo e vitale. E, soprattutto, riconosciuto dalle imprese. L’Unione europea non si sostituisce mai ai singoli Stati nazionali. Però, in misura crescente, ad esempio come Commissione, ci troviamo ad agire insieme ad essi.
Veniamo spesso coinvolti dalle comunità locali, quando le multinazionali scelgono di chiudere impianti per andare a delocalizzare fuori dall’Unione. Inoltre, in modo sistematico sosteniamo le politiche di internazionalizzazione delle imprese, in coordinamento e in equilibrio con quelle degli Stati nazionali.
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