I guardiani occhiuti di Bruxelles non lo conoscono, perché sfugge ai bilanci consolidati della Pubblica amministrazione che l’Italia porta sui tavoli europei; ma è un debito pubblico a tutti gli effetti e, per di più, è in rapida crescita.
È il debito accumulato dalla miriade di società che lavorano con gli enti locali, in genere grazie a contratti in house con Comuni e Province che sono i loro unici azionisti. A metterlo nero su bianco, con un’analisi finora inedita resa possibile dall’anagrafe telematica dei controlli (Siquel), è la Corte dei conti, nel capitolo dedicato alle partecipate “nascosto” nelle 323 pagine del Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2012 presentato martedì scorso. Il cuore del problema, su cui puntano direttamente le tabelle elaborate dai magistrati contabili, sono le società titolari di affidamenti diretti, che finora sono sfuggite agli obblighi di apertura al mercato continuamente imposti dalle norme sulle “liberalizzazioni” e altrettanto prorogati o derogati da regolette ad hoc infilate nelle manovre o nei decreti di fine anno. Si tratta, secondo il monitoraggio della Corte, di 2.444 aziende, cioè il 78% delle società partecipate dagli enti locali (altri 1.789 organismi sono integralmente posseduti da Comuni e Province ma non hanno forma societaria), che hanno visto stratificarsi nei propri bilanci un debito da almeno 34 miliardi di euro, un dato che supera del 36% il valore della loro produzione, fermo intorno ai 25 miliardi all’anno.
Già, perché oltre ai numeri, un altro elemento preoccupante è offerto dalla dinamica delle grandezze in gioco. Il valore della produzione, infatti, è appunto fermo, dal momento che tra 2008 e 2010 è cresciuto solo dello 0,5%(e la nuova gelata dell’economia rischia di limarlo più o meno profondamente), mentre nello stesso periodo il passivo si è gonfiato dell’11,62 per cento. In settori ad alto tasso infrastrutturale, dai rifiuti all’idrico, il debito è figlio anche degli investimenti necessari all’erogazione del servizio, ma questa caratteristica è tutt’altro che generalizzata e il passivo è alzato anche da un debito commerciale che pesa per il 35% del totale.
Per capire meglio le dimensioni del problema, basta ricordare che il debito “ufficiale” di Comuni e Province, rilevato sempre dalla Corte dei conti nel l’ultimo rapporto sulla gestione finanziaria degli enti locali, supera di poco i 58 miliardi di euro: il rosso delle società in house, dunque, lo farebbe crescere del 59 per cento. Numeri imponenti, insomma, destinati a emergere dal processo di riforma della contabilità locale, che sta conducendo verso il consolidamento dei bilanci di Comuni e Province con quello delle loro partecipate.
Il problema, però, è prima di tutto sostanziale ed economico. L’universo delle partecipate, e il suo enorme sottoinsieme delle società in house, offrono un panorama assai composito, in cui aziende competitive convivono con realtà in perenne affanno, che talvolta rispondono a logiche più politiche che industriali. Sono i numeri generali, però, a mostrare i vizi profondi del sistema: nel contesto stagnante denunciato dal valore della produzione stabile, il costo del personale è aumentato nell’ultimo triennio del 15 per cento, il 35 per cento delle società ha chiuso uno degli ultimi tre bilanci in perdita (al Sud, o fra le società consortili in generale, questo dato sale al 40 per cento), con un rosso complessivo 1,4 miliardi di euro. In 192 casi, l’ente locale proprietario è stato addirittura costretto a mettere mano al portafoglio dalla legge, che impone il ripiano quando le perdite riducono il capitale di oltre un terzo (articolo 2446 del Codice civile) o lo portano sotto il limite minimo (articolo 2447).
È proprio questo legame stretto con i conti di Comuni e Province a intensificare l’allarme sul reale effetto che la ramificazione societaria ha sulla finanza pubblica. Le norme degli ultimi anni, ricorda la Corte, hanno moltiplicato i vincoli ai bilanci degli enti locali, stringendo in particolare sulla gestione delle spese e sulla possibilità di indebitarsi, ma la via d’uscita che passa dalle società è sempre aperta. Il debito, per esempio, esce dai conti dell’ente locale, che però ne rimane nei fatti il titolare e in caso di liquidazione deve farvi fronte (ne sa qualcosa il neosindaco di Parma, Federico Pizzarotti), mentre anche sulla spesa corrente e sulla spesa di personale si moltiplicano le possibilità elusive. «Il rispetto dei vincoli posti alla finanza locale – conclude la Corte –, ove accertato, è da ritenersi spesso soltanto formale». Con buona pace del Patto di stabilità e delle regole introdotte nel 2011 sul contenimento del debito, che tra l’altro aspettano ancora i decreti del ministero dell’Economia necessari per attuarle.
Corre il debito delle società «in house»
Il «rosso» arriva a 34 miliardi (+ 12% negli ultimi tre anni) mentre il fatturato è fermo a 25
Il Sole 24 Ore del lunedì
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