Lo «spezzatino» delle competenze delle 107 province italiane (che si occupano, fra l’altro, dell’edilizia scolastica, dei servizi per l’impiego, della rete viaria e dei trasporti), finalizzato, sulla carta, al contenimento delle spese, rischia di trasformarsi in un «boomerang»: trasferire i poteri sugli edifici che ospitano gli oltre 7 mila istituti superiori (attualmente 65 per ogni amministrazione) significherebbe che 1.484 comuni dovrebbero farsi carico della gestione di 4,7 fabbricati in media ciascuno. E, poiché soltanto il 18,3% dei sindaci può vantarsi di avere sul proprio territorio almeno una scuola superiore, ciascun comune in cui si trova una sede dovrebbe realizzare accordi gestionali con tutti i municipi circostanti (in media una decina), nell’ambito di un bacino d’utenza unico. L’Upi, Unione delle province italiane, non vuole assistere silenziosamente all’eliminazione («con un tratto di penna», nonché «andando contro la Costituzione») degli enti, perciò grazie allo studio eseguito dal Censis sottolinea come serva «un governo per le funzioni di area vasta» non soltanto per i 10 ambiti individuati dalla legge 135/2012 (le Città metropolitane), bensì diffusamente «in gran parte del paese». L’esecutivo di Enrico Letta, osserva il presidente Antonio Saitta, incontrando i giornalisti, a Roma, avrebbe dovuto riprendere in mano il progetto di riordino del suo predecessore Mario Monti, «a cui avevamo collaborato», che prevedeva «un forte accorpamento degli organismi dello stato e risparmi, certificati dalla Ragioneria generale, pari a circa cinque miliardi di euro». Invece, quelle norme sono state «buttate nel cestino», a beneficio di un nuovo disegno di legge del ministro Graziano Delrio, attualmente all’esame della commissione Affari costituzionali di Montecitorio (AC 1542), che è «incostituzionale», e l’intero impianto di tale riforma è «di grande restaurazione», poiché il testo sposta le amministrazioni provinciali «nell’area degli enti opachi» (con il meccanismo dei consorzi), e prevale un’organizzazione statale all’insegna della burocrazia centralista «che non vuole essere cambiata».
Il dossier, anticipato ieri alla stampa, sarà illustrato oggi, sempre nella Capitale, nel corso dell’assemblea nazionale dell’Upi al teatro Quirino, cui prenderanno parte anche rappresentanti dei lavoratori, preoccupati per il proprio futuro. Secondo Saitta, i motivi di allarme non mancano, visto che l’impatto del piano di restyling degli enti sarà la «potenziale messa in mobilità di tanti dipendenti», malgrado le rassicurazioni giunte da Delrio. Noi, va avanti, «sappiamo che ci sono esuberi di personale in tutte le regioni che, per ridurre i costi della sanità, hanno dovuto mettere in mobilità» molto personale, e «lo stesso accade nei grandi comuni». Nel ddl del titolare del dicastero per gli Affari regionali, poi, «non c’è una parola» sulle minori spese frutto del trasferimento delle mansioni, «se non che non essendoci più elezioni dirette si risparmierebbero 380 milioni. In realtà», puntualizza, «non è vero», perché le votazioni provinciali «si associano alle europee, o alle comunali. Quindi», le uscite «vi sarebbe comunque». Ad ogni modo, annuncia il 20 novembre sarà resa pubblica la ricerca, stilata da alcuni economisti («non di parte», si affretta a precisare), sugli effetti finanziari del provvedimento, a suffragio di quanto finora denunciato dall’Upi.
La necessità di istituzioni adeguate per pianificare e gestire servizi fondamentali per la collettività è tutta nelle cifre rilevate dal Censis: su 686 sistemi locali del lavoro (come i centri per l’impiego) 519 insistono nel territorio di una sola provincia e 149 su quello di due, mentre su 56 distretti industriali 36 si dispiegano in un unico ambito provinciale, e 14 su quello di due enti. E poco più del 18% delle amministrazioni comunali ospita nella propria zona almeno una delle 7.036 scuole superiori; i tre quarti delle strade sono, inoltre, provinciali, e addirittura in 20 enti si supera ben l’80% della rete viaria complessiva. Eppure, si rammarica Saitta, il dibattito sulla revisione degli enti ha condotto finora soltanto a una loro «delegittimazione», nonché «ad una brusca riduzione delle risorse fondamentali per il loro funzionamento».
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