Bossi, le tasse locali e lo scontento leghista

L´analisi

Repubblica
27 Luglio 2010
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Umberto Bossi gode meritatamente fama di ottimo giocatore, ma nell´estate 2010 si trova alle prese col bluff più grosso della sua carriera politica: la realizzazione dello Stato federale, il mito padano impossibile da trasferire nella realtà.
Se domenica sera è incespicato in una promessa temeraria –”girare nelle casse dei nostri comuni l´Irpef e anche l´Iva”- con successiva, maldestra smentita, è perché il fondatore della Lega deve fronteggiare un malcontento diffuso sul territorio che governa ormai da quasi vent´anni.
E ha aggiunto che in un partito liberale di massa – quale egli evidentemente intende debba essere il partito di cui è stato co-fondatore – non si può minacciare di espulsione chi dissente, ed è portatore di idee diverse da quelle approvate dai vertici; per concludere poi che oltre al garantismo giudiziario esiste anche l´opportunità politica: e questa vuole che un indagato, come Verdini, dati anche i motivi per i quali è indagato (collusione con la cosiddetta P3), debba dimettersi dalle cariche di partito che ricopre (cioè quella di coordinatore del Pdl). È la guerra, insomma.
Una guerra che ha come baricentro e punto strategico la questione della legalità, espressamente citata da Fini come tema centrale per una forza politica come il Pdl, e come punto debole dell´attuale dirigenza. E non v´è dubbio che la Destra Nuova di Berlusconi non parli, sulla legalità, il linguaggio ben più tradizionale – e quindi, oggi, in Italia, ben più moderno e costituzionale –, che sta utilizzando Fini per costruire la propria ‘grande narrazione´ legittimante: il linguaggio della Legge, a cui affianca quello dei diritti (e anche quello della laicità), quasi a indicare una ragion d´essere, una mission, al suo partito. Rispetto al quale oggi tiene molto a sottolineare di non essere un alieno – un ‘compagno´ –, ma di essere anzi animato da un patriottismo di partito che rende la sua guerra una ‘guerra interna´, una battaglia politica e ideale che si svolge nel perimetro della destra italiana.
Certo, di una destra non arroccata nella difesa delle vicende personali e giudiziarie del Capo e dei suoi uomini; una destra capace di politica, e non chiusa nel bunker a combattere un conflitto infinito contro le istituzioni; di una destra non palesemente priva di spinta propulsiva come quella di Berlusconi e degli ex di An. Fini, insomma, vuole risolutamente combattere ma senza farsi espellere: o meglio, vuole far sì che l´espulsione, se ci sarà, sia, chiaramente, una manifestazione di intolleranza e al contempo di debolezza. Infatti, ciò che, in un partito normale, non sarebbe un grande problema – una lotta politica – lo è nel Pdl, che non è ancora un partito ma una proprietà personale di Berlusconi, a sua volta oggi troppo debole per resistere a un vero conflitto politico; che infatti vorrebbe risolvere con l´espulsione dell´avversario, pur temendo l´effetto potenzialmente rovinoso di una simile decisione.
Lacerato da questa incertezza e da questa impotenza, Berlusconi vede la sua forza politica spegnersi; vede il governo perdere pezzi, e non per nobili motivi – Bertolaso, Scajola, Brancher –, i suoi fedelissimi vacillare (Verdini) o essere colpiti (Dell´Utri); le sue leggi arrancare – il ddl sulle intercettazioni, nato apertamente per impedire le indagini della magistratura e la libertà di stampa, è ormai azzoppato, benché ancora molto dannoso per gli operatori della Giustizia –; i suoi progetti faticare – la costituzionalizzazione del lodo Alfano è avvolta nelle nebbie –; il suo partito trasformarsi in un coacervo di gruppi politico-affaristici. E a questo deficit di capacità politica reagisce minacciando riforme radicali della Costituzione, che difficilmente potrà portare a termine. La sua enorme forza numerica in Parlamento, infatti, può essere fatta valere solo a colpi di fiducia. E questa è riservata alla manovra economica dell´altra destra, la destra degli interessi territoriali, di Tremonti e di Bossi, che persegue lucidamente la debellatio delle élites dello Stato centrale (magistrati, diplomatici, professori universitari) e una sorta di razionalizzazione della divisione del Paese. Quella, legalizzata, del ‘federalismo fiscale´, mito politico e idea forte, presentato come la terapia della frantumazione dell´Italia a opera della corruzione, della malavita e dell´illegalità fattasi ormai sistema.
Combattere il disastro nazionale ritirando le legioni, facendo a pezzi lo Stato – il taglio dei trasferimenti alle Regioni avrà effetti paralizzanti su mille articolazioni periferiche della macchina pubblica; l´accenno di Bossi, controverso ma verosimile, all´Iva e all´Irpef che devono restare nei Comuni, è una sorta di lapsus rivelatore –; è con questa strategia, più che con la strategia vacillante di Berlusconi, che si deve confrontare la contro-strategia di Fini. Il quale, da destra, sembra stia imboccando la via che non potrà non essere percorsa – in diverse modalità, e con diversi ruoli – anche dal Pd: la via della riforma, morale e pratica, del superamento effettivo, della politica di un governo che oscilla fra lo sprofondamento nella palude e il devastante colpo di mano. La via di una politica che vuole acquistare nuovamente una dimensione nazionale e legale, costituzionale e progettuale; di un´Italia che non vuole declinare con Berlusconi né abdicare da se stessa con Tremonti e Bossi.

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